sabato 9 febbraio 2013

VALERIO ROCCO ORLANDO

  

Intervista a VALERIO ROCCO ORLANDO
di Marta Casati



INTERVISTO VALERIO OCCO ORLANDO NEL SUO STUDIO A MILANO NEL 2009.
Il video e la fotografia accompagnano ogni suo lavoro, o per meglio dire, sono le fondamenta di ogni suo passo artistico. Valerio Rocco Orlando, giovane artista milanese ormai da anni presenza nota sul panorama artistico italiano, raccoglie ennesime conferme e prosegue sulla sua strada di ricerca e di sperimentazione. Soprattutto il ritratto, al di fuori dello stereotipato modo di percepire la globalità fisica e mentale di un individuo, è quanto più lo interessa e lo stimola. Orlando mira a indagare, più che percepire, l’identità che si cela subito al di là della sua spessa coltre d’apparenza. Ma è soprattutto la possibilità di cambiamento, la certezza o incertezza di metamorfosi, che lo intriga fino a suggerirne le tematiche portanti di ogni sua opera. L’installazione poi diviene parte integrante della sua messa in posa, necessaria esigenza espressiva e non solo stratagemma destinato alla durata dell’esposizione.Durante l’intervista ho cercato di visualizzare l’attenzione su quanto è il suo presente, con l’esperienza americana che sta vivendo, e quanto è stato più significativo tra le mostre ormai affrontate.



Voglio cominciare questa intervista visualizzandoti nel momento biografico e artistico che stai vivendo. Sei a New York essendo stato eletto vincitore assoluto del Concorso Pagine Bianche d’Autore 2009. Cosa già sta dando questa esperienza? Quali sono gli obiettivi che ti sei prefissato?
La residenza di sei mesi all’ISCP è un’importante occasione di riflessione, confronto e produzione. Questa partenza ha dato nuova energia a un progetto a cui lavoro da tempo: l’obiettivo è di girare a New York un film d’amore, il ritratto di una relazione sentimentale, a partire dall’analisi del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Ho pensato di creare nel mio studio un luogo di scambio e di ricerca, crocevia di volti, testimonianze e riflessioni attorno all’esperienza amorosa. Una serie di scatti fotografici e appunti di viaggio documenteranno il processo di costruzione dell’opera, registrando incontri, conversazioni e suggestioni visive. Sto cercando anche un confronto acceso e vivo con altri artisti che vivono nell’area di New York, di modo che la mia visione non rimanga privata e singolare, ma diventi tanto più universale e condivisibile.    
Dalle pagine del tuo sito web hai spiegato il quid del tuo procedere artistico così:  “La mia ricerca parte dalla consapevolezza per cui la nostra identità è in continuo movimento, vive nella stratificazione della memoria e va costituendosi nella condivisione di relazioni e sentimenti.” Cosa più t’inquieta dell’identità e del suo non potersi inquadrare e fissare?                            Sono assolutamente affascinato dalla mobilità della nostra identità e dalla sua capacità di definirsi, quotidianamente, all’interno delle relazioni con gli altri. Secondo Rudolf Kassner, il filosofo austriaco che negli anni Venti mette in discussione la fisiognomica classica, “ogni carattere, volto, essere è metamorfosi”. La nostra stessa identità è metamorfosi, in quanto polarità e in-differenza di tratti fissi e tratti mobili, fisionomia e mimica, statica e dinamica. Dal momento che l’uomo non può essere come appare, semplicemente perché non si limita a essere, ma continuamente diventa, cambia, si trasforma, il suo volto non è più spazio, ma tempo. Il volto è storia, o meglio, racconta le sue storie; non dice il carattere, ma le sue trasformazioni, che sono appunto le sue storie. Nelle mie installazioni emergono proprio queste trasformazioni, in una “reciprocità di sguardi” in cui si genera il senso del volto, all’interno di una relazione di perfetta co-risonanza vissuta tra ciò che oggettivamente appare e lo sguardo soggettivo.           
La tua ricerca è nutrita dalla fotografia e dal video con energica fame sia dell’uno che dell’altra, senza per questo sfociare in attacchi bulimici in entrambi i casi. Il tuo risvolto finale procede asciutto e sgombro da eccessi ornamentali ridondanti. Ma in questo procedere attento il video risulta il protagonista assoluto. Come ti approcci al suo obiettivo? Progetti ogni dettaglio a tavolino per poi giungere alla fase tecnica avendo studiato ogni passaggio o lasci che l’istinto del momento giochi gran parte della partita?                                                           Il mezzo cinematografico è il più coerente ed efficace nel rendere quelle trasformazioni, corrispondenze e stratificazioni che m’interessa scandagliare. Dopo un lungo lavoro di documentazione, editing e selezione, minuzioso e istintivo allo stesso tempo, la fase dell’installazione riveste un ruolo altrettanto importante nel processo di creazione di un progetto, tanto che anche la fotografia viene sempre inserita all’interno di strutture articolate.                                                      
Una delle mostre personali più recenti (tenutasi da Maze a Torino) si chiama Niendorf (The Damaged Piano). Vorrei che spiegassi tu stesso per chi non ha visto il progetto, ospitato anche al Teatro Regio di Parma, la storia di questo pianoforte e del suo pianista, il perché ti sei appassionato così tanto alla sua vicenda.                                                     Niendorf (The Damaged Piano) è il ritratto di un pianoforte sopravvissuto in Germania alla guerra, uditore e interprete di mille storie e ancora capace di vibrare suoni assolutamente personali. Le tracce dell’abbandono e la sua riscoperta, così come l’identità stratificata dello strumento, sono talmente evocative e stimolanti per la mia ricerca, che ho sentito fin dall’inizio la necessità di raccontare la sua storia. Grazie anche alla produzione del festival Novara Jazz il progetto ha vissuto diverse fasi, dalla prima presentazione a Palazzo del Broletto di Novara all’installazione dei due mega schermi sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma, fino alla forma definitiva della personale da Maze a Torino. Le luci colorate riverberano i diversi suoni e le diverse anime che appartengono al pianoforte, le musiche del passato che riaffiorano nel presente, così come il close-up in bianco e nero del compositore inglese Michael Nyman, nella seconda proiezione del film in 35mm, diventa l’alter ego di ogni musicista che si è accinto a suonarlo.                                     
Tre aggettivi per descrivere il mondo dell’arte contemporanea (ormai domanda immancabile per ogni artista).                       Personale, rizomatico e spettacolare.

(PUBBLICATA NEL NUMERO DI OTTOBRE-NOVEMBRE 2009 DI ESPOARTE)

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