INTERVISTA A KRISTINE ALKSNE
di
Marta Casati
Lettonia: il tuo Paese di
origine. Voglio cominciare proprio da qui. Tu ti dividi tra Milano e Londra,
realtà per alcuni tratti vicinissime e per altre distanti, quasi opposte. Nel
tuo percorso, quanto nel tuo quotidiano è presente e riaffiora la realtà delle
tue radici? Incide nella tua arte - involontariamente dal tuo volere - o è un
elemento che ricerchi e vuoi che emerga?
Sono andata via da casa a diciotto anni, subito dopo che ho terminato gli studi
nella Scuola d’arte a Riga. Da lì sono venuta prima a Bergamo, dove ho
frequentato l’Accademia di Carrara. Il mio primo professore è stato Stefano
Arienti: sinceramente non capivo il senso di ciò che insegnava durante le
lezioni ma mi piaceva e adesso, che sono passati alcuni anni, riconosco nei
miei lavori il suo atteggiamento e le sue provocazione verso l’arte. Dopo un
anno mi sono trasferita a Londra fondamentalmente per ricercare nuove
possibilità per studiare, ma purtroppo l’Inghilterra non era ancora parte
dell’Europa: tutto costava esattamente dieci volte di più rispetto ad un altro
europeo, così dopo anni ho deciso tornare in Italia e continuare gli studi a
Milano all’Accademia di Brera. A Londra ho vissuto pienamente il mondo della
musica e l’arte. E’ lì che ho visti le prime mostre dei giovani inglesi, sono
loro che mi hanno trasmesso i primi
impulsi. Il fatto di essere lettone mi ha reso fortunata dandomi la
capacità di essere flessibile mentalmente, adattandomi di volta in volta nei
luoghi dove ho vissuto. Ora non sento più la distanza dal mio paese. Nel lavoro
“Jurmala” si vede l’ombra di una foresta lettone dipinta su tetto di box. E’
un’ombra trasportata dalla Lettonia, come se riuscisse a cancellare le distanze
tra Milano e Lettonia. Certo che le proprie radici sono come specchi nei
lavori. Per me è difficile distinguere, ma non cerco neppure di farlo: trovo
che avere una certa distanza dalla propria cultura adesso sia importante
nell’arte contemporanea, essere cioè capaci di osservare con un sguardo
aperto/accogliente verso culture e modi di pensare diversi.
Lo si potrebbe definire “work in progress” o “site
specific”, ma la differenza non è poi così diversa. Molte delle tue
installazioni hanno proprio questa natura: progetti che vengono ideati e
realizzati per ambienti e sedi destinati prima ancora che la realizzazione
prenda inizio. Questo circa la tua metodologia operativa: quando crei le tue
opere quanto peso ha la destinazione dell’opera sul risultato finale del tuo
lavoro? Ma, dunque, si può parlare mai di un vero “risultato finale”, ossia si
raggiunge sempre un termine?
Mi capita spesso di pensare tanto su come il lavoro si sia
sviluppato ma, alla fine, il mio modo di fare mi piace tanto che non ripeto mai
lo stesso lavoro, non è possibile, perché non c’è una regola e ogni spazio ha
la propria forma. Anche i materiali che uso sono spesso di stagione come foglie
di felce etc. Credo che la ricchezza di un lavoro sia quella di essere unico
quasi per “forza”.
Il progetto che recentemente ti ha visto protagonista
insieme a Sandrine Nicoletta è Doppler, ospitato nei locali espostivi della Galleria
AutoriCambi di Roma. L’effetto “doppler” è la variazione della frequenza di
un’onda (sonora o luminosa) emessa da una sorgente in moto rispetto al
fruitore. Chi è il mittente e chi il fruitore nel tuoi lavoro? Quanta
importanza ha la ricerca sul concetto di spazio e quanto quella di tempo nei
tuoi lavori?
Lo spazio è importante perché con
un minimo intervento riesci cambiarlo, il tempo dipende invece dal lavoro, a
volte dura settimane, altre solo una giornata, ma questo non è importante. Per
le installazioni lo spazio è fondamentale, perché questo è stato quasi da
sempre il mio modo di lavorare: arrivare in uno spazio e lì sentire e decidere
cosa fare, come le arche della galleria Autoricambi che sono state dipinte con
un disegno mimetico – ripreso dai platani, o la parete della galleria Continua
dove sono stati attaccati i fagiolini Mung (fagioli cinesi).
Esiste un autore, un regista, un fotografo al quale ti
senti particolarmente vicina per ricerca e linea artistica vicina a quella che
è stata ed è la tua formazione? A chi/cosa ti ispiri?
Mi ispiro a tantissime cose ma cambio anche con il tempo,
trovando sempre nuove ispirazioni. Mi piace il cinema del Nord, come Anderssen,
il regista svedese che in Italia quasi non è conosciuto. Nei suoi film e nelle
pubblicità ha coinvolto fortemente l’arte come istallazione-performance. La
pubblicità però è diversa, non è fatta come in Italia, ma è intesa come fossero
cortometraggi. Per quanto riguarda invece gli artisti ce sono tanti, ma mi
ispiro piuttosto a tanti lavori diversi, come quello che è stato tra i primi
lavori a darmi una forte emozione, quello che era alla Biennale di Venezia del
1999…
La fotografia: tre aggettivi per definirla, tre
sostantivi che meglio rappresentano le sue potenzialità.
Ci sono vari tipi di fotografia, conta quanto vuoi dire:
c’è la fotografia come documentazione, quella come momento della realtà. Per me
la fotografia ha lo stesso valore della pittura o della scultura.
In alcune dei tuoi lavori
fotografici i soggetti sono creature femminili, delicatissime, rappresentate e
interpretate con un gusto raffinato e semplice nello stesso tempo, a pieno
rispecchianti quello che definisci il tuo “atteggiamento verso l’arte”. Credi
di raccontare - sempre che sia nei tuoi intenti - il tuo essere donna nella
ricerca artistica che porti avanti? Ossia la femminilità ha un peso, in qualche
modo, rilevante?
Hm, “essere donna” perché lo sono,
ma non ho mai avuto interesse di affrontare un mio discorso su lavori incentrati
esclusivamente sulla donna, anzi. In passato ho sempre avuto un legame molto
più forte con lavori maschili piuttosto che con la sensibilità femminile, ma
adesso, paradossalmente, mi ci trovo molto più vicina di quanto prima potessi
pensare. Non si sente la formalità e tutto è più fluido. Ma, del resto, trovo
cha anche la sensibilità di Orozco sia femminile, così come di altri artisti
uomini. Un lavoro sicuramente femminile è stato “Mulina”, le angurie decorate
con adesivi di colori diversi seguendo il disegno della stessa anguria. E’ il
lavoro che ho realizzato a Palermo l’anno scorso. Il mio prossimo progetto sarà
realizzato a Kabul, dove le donne arabe vivono su cavalli. Faranno loro dei
tappeti dove i disegni saranno i segni del tronco della betulla. Sono molto
curiosa di vedere il lavoro terminato, quando ogni donna avrà il proprio
disegno. E’ il primo lavoro nel quale incrocio tra loro le donne culturalmente
diverse, ma tutto concentrato in un solo progetto.
Nella collettiva di Viafarini, dal titolo Stati Mentali del 2002, c’è una foto in cui
la tua presenza femminili ha un aspetto fragile, etereo, delicatissimo,
protetto da una folta chioma di capelli: sembra però nascondere tutt’altro che
debolezza…
In quella foto mi interessava l’ambiguità di una figura
femminile trasformata poi in un altro corpo. La forma e il viso sono coperti
perché si nascondono dentro i capelli che a sua volta hanno una forma propria
che permette la deformazione del corpo. L’assenza del viso lascia la
possibilità di ottenere un’opera aperta a letture diverse.
Una domanda che spesso rivolgo agli artisti: un tuo
pensiero sulle proposte artistiche attuali. Cosa pensi dell’arte contemporanea?
Sempre da scoprire.
Prossimi progetti? Sempre che tu possa anticiparmi
qualcosa.
Quasi paura da dire, perché ci sono idee e nuovi lavori
gia in progress, ma il risultato finale più importante è quello per il
pubblico, e fin che non sono stati realizzati non posso esserne convinta.
(pubblicata su JULIET 2004)
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