Intervista a Kruno Yasprica
di Marta Casati
Intervisto Kruno Yasprica in occasione della mostra TURBO Galleria Bianca Maria Rizzi (9 Maggio-9 Giugno 2006).
Osservo le tue opere su carta. Emerge un segno deciso, nitido, vigoroso. La figura ne viene coinvolta, inglobata. Credo che il disegno stia alla base della tua ricerca, ma è sempre così nitido e fermo nella tua mente - fin dal principio, prima che tu inizi a disegnare o poi dipingere - o si costruisce man mano che l’opera prende corpo?
Un tâchiste lavora con delle superfici, ma anche loro
hanno un contorno: il disegno è la base di ogni pittura – questo è assodato.
I lavori di grande formato esigono tanto una concezione
più forte dal punto di vista dei contenuti, quanto un approccio artigianale,
formale. Complessivamente, ci vuole più preparazione che nei disegni e nei collage.
Al principio sta sempre un’idea; poi, man mano che il lavoro procede, decisioni
già prese possono venire revocate in favore di altre soluzioni. Vien quasi da
paragonare il lavoro su grandi formati con il protocollo che si segue, per
esempio, negli esperimenti in fisica. Si fa un esperimento pensando al
risultato che ci si aspetta – e che non sempre si ottiene.
Se potessimo e volessimo fare un confronto tra le tele
più recenti e quelle di qualche anno fa, come quelle del 2002 (Treffen) si nota
che l’assetto contenutistico non è più così serrato. La cornice spaziale è come
se tendesse ad alleggerirsi, quasi volesse concedersi il lusso di sfaldarsi.
Adesso hai forse un bisogno e una maggiore necessità di aprire l’apparato
architettonico e scenografico dei tuoi dipinti?
Ogni messaggio pittorico esige una soluzione formale
adeguata, che non può essere sottoposta a vincoli stilistici. C’è però una
direzione, una corrente in cui io nuoto, e che mi sono scelto da me.
Trovo che le figure abbiano una timida ma dichiarata
preferenza nel predisporsi: si compongono secondo movimenti circolari, in base
a una disposizione ciclica, quasi a spirale. Si crea un movimento rotatorio che
rende viva la situazione, attiva l’interazione tra i personaggi. Da cosa nasce
questa tendenza? È una reale caratteristica della pittura o solo un caso che si
ripete?
Ha senso creare prodotti casuali e, per di più, lasciarli
sussistere altrettanto casualmente? Ammesso che esista qualcosa come un
“prodotto casuale” – premessa che non condivido –, senza assegnargli un
significato e renderlo un prodotto volontario del mio lavoro, esso sarebbe
schizofrenico e, sia detto per inciso, costituirebbe una semplice perdita di
tempo.
Credo che nelle composizioni scultoree – assemblaggi miscellanei
e variopinti tra incursioni dai materiali più diversi, dai biscotti wafer ad
aereoplanini in plastica, da mascherine in cartone a biglie e caramelle – tu
riesca a organizzare gli elementi secondo principi espressi anche per mezzo
della pittura: la convivenza e l’incontro tra presenze diverse che tentano di
dialogare senza riuscirci fino in fondo o, talvolta, neppure in parte. È così,
forse?
I rapporti reciproci vengono ritenuti tali, e non
fabbricati: c’è, in questo, una differenza essenziale. Immaginatevi di
osservare una fotografia che rappresenti una pistola posata su un tavolo. Che
succede? Non mettete in dubbio la realtà di questa immagine, poiché si tratta
di effettiva realtà che dispone di documentazione fotografica. Ma il lato
documentario della questione è indifferente rispetto alle possibilità di
pensiero.
Nell’espressione artistica invece si ritiene che una
pistola sia posata sul tavolo. Ciò include in sé la possibilità di
un’interpretazione di ciò che è rappresentato.
Non si tratta perciò di un tentativo di mettere a
confronto realtà diverse, ma di sperimentare l’evento di realtà diverse messe a
confronto.
Poi i collage: sono semplici esercizi, prove, una sorta
di bozzetto preparatorio o qualcosa di altro che il solo uso di pennello e colore
non ti permetterebbe di ottenere?
Fare collage e disegnare significa pensare sulla carta,
senza frapporre il filtro del linguaggio. A tale riguardo, i collage hanno
anche carattere preparatorio in vista dei miei quadri di grande formato e
contribuiscono alla chiarificazione di aspetti formali e contenutistici.
Dimmi tre aggettivi per descrivere il tuo lavoro e uno
con il quale potesse essere riconosciuto da chi lo osserva.
Su questo non mi soffermo. Chi vorrà riflettere
attentamente sul mio lavoro, potrà
riconoscervi nessi e accenni di soluzione tipici del mio pensiero e
delle mie opere.
La mostra è caratterizzata dal dialogo tra due opere a
prima vista molto diverse tra loro: Headquarter e Ausblick. Il principio che le
unisce è quello della similitudine e vicinanza concettuale o quello
dell’opposizione? Da cosa nasce il bisogno di creare una coppia a prima vista
tanto diversa?
È il tentativo di ripensare lo stesso processo in due
maniere diverse. Il quadro Headquarter si basa su una fotografia di un interno
del Quartier Generale dell’onu a
New York. L’ingrandimento di tale
interno sino a raggiungere l’effetto-pixel, la dissoluzione del riconoscibile,
ne rende difficile la collocazione, e con ciò il prender posizione
dell’osservatore rispetto a ciò che è rappresentato – Ausblick è l´antitesi, di
presumibile ascendenza idealistico-romantica.
Alcuni tuoi dipinti comprendono sia immagini di grandi
dimensioni che raffigurazioni di oggetti di misura più ridotta, che solo dopo
essersi avvicinati al quadro si mostrano all´osservatore in una visione nitida.
Questa compresenza implica un collegamento, che però non mi sembra sempre
evidente. È vero?
La tua maniera di chiedere contiene già la risposta. Le composizioni di
immagini in miniatura sono, come per esempio nel caso di Runde, racconti che si
svolgono sullo sfondo in modo nascosto e che suggeriscono una traccia che può
essere anche sbagliata.
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