Intervista ad ANDRAS CALAMANDREI
di Marta Casati
Intervista realizzata in occasione della personale di Andras Calamandrei Magazzino 1B di Prato si intitola Sometimes I wish I could swallow up all the existent words (2011).
Immagini
che in principio sembrano appartenerci quasi di facile lettura: niente di più
errato. L’universo di Andras Calamandrei, viaggiatore instancabile e indagatore
del quotidiano, è un andare oltre la scorza dall'apparire da sempre nutrito da
una pungente e sottile denuncia politica e sociale, un esercizio continuo
alimentato da memorie, scatti, scritti emergenti dal suo universo, complesso e profondo. Calamandrei
lavora con la fotografia perché fotografo preofessionista, non per questo non
esige di mettersi alla prova nei suoi dipinti ricamati, in sculture e
installazioni. Lo intervisto in occasione della sua ultima personale per
scoprire che…
La tua ultima personale ospitata da Magazzino 1B di Prato si intitola Sometimes I wish I could swallow up all the existent words. Cosa ci cela dietro?
E’
una frase che mi sono ripetuto spesso in forme diverse da quando ho cominciato
a scattare in maniera ossessiva per il progetto Hermes. Era
per me un nominare il mondo, appropriarmene e tentare di porre una “giusta”
distanza tra me e il reale. E’ per il mio interesse per le lingue; madrelingua
tedesca, 'padrelingua' italiana, emigrato in Argentina e quindi spagnolo, dover
usare l’inglese. Un mix cacofonico di suoni, significati, usati spesso insieme
in singole frasi. Da questo, a volte un’estrema stanchezza mentale e desiderio
opposto di riuscire a trovare un solo Nome, una sola Parola per definire il
tutto; nella vita come nell’arte.
La
tua raccolta fotografica chiamata Hermes è coltivata dal 1999, di cui si nutre
anche la mostra di Prato. Come la descriveresti?
E’
un diario prodotto con una pocket camera analogica sempre in tasca. E’ la mia
visione estetica, etica e politica del mondo e del reale. Per 4 anni ho
scattato e conservato i negativi e i provini in una scatola quasi senza
guardarli. Dal 2002 ho cominciato a considerarlo un progetto fotografico, e
solo da lì -continuando a scattare ovunque fossi- ho cominciato a rielaborare
l’archivio. Dal 2009 uso anche una pocket digitale con cui produco video con la
stessa processualità ed estetica. E’ un archivio potenzialmente infinito al
quale vengono continuamente aggiunte nuove immagini venendo cosi indotti ad un
interminabile processo rivisitazione dell’intero corpus.
Quali
sono state le maggiori difficoltà nel realizzare questo progetto? Come le hai
superate?
La
quantità delle immagini selezionate (circa 600) e la decisione di non
catalogarle cronologicamente. Ho a che fare con un magma informe di negativi
(immagini) e di molte decine di Giga (video) che in parte hanno una vita loro.
Un archivio di odori tempi spazi che si è stratificato e trasformato
innumerevoli volte. Questa caoticità riesce comunque a mantenere sempre un
legame estetico e contenutistico; produce delle visioni contrastanti e
atemporali ma narrativamente coerenti. Le difficoltà le ho superate grazie alla
sensibilità, l’occhio esterno e i 'limiti' posti dalla curatrice della mostra,
Daria Filardo. Oltre a delle stampe, Hermes è presente con una videoproiezione composta da
circa 420 immagini prese dall’archivio, video e un soundtrack prodotto da Tuia
Cherici.
Tu
nasci come fotografo ma i tuoi lavori non si limitano alla fotografia. Cosa ti
permettono di esplorare gli altri media che invece, la tua adorata fotografia,
non ti concede?
Non
so di preciso; come dici, ho un background molto fotografico e una modalità di
produzione che attinge dalla lentezza e utilizza strategie di stratificazione
che ho imparato dalla scuola di fotografia. Ho comunque sempre desiderato
manipolare e trasformare altri tipi di materiali. In questi ultimi sette anni a
Buenos Aires, oltre ad incontrare numerose persone stimolanti e generose, a
vivere situazioni intense di una metropoli sudamericana con le sue infinite
sfaccettature idiosincratiche, ho avuto un lavoro interessante con un carico
ridotto di ore. Questo surplus di tempo, energie e risorse, insieme alle
innumerevoli “occasioni“ esperite in questa città in cui non avevo radici di
appartenenza, mi ha dato il coraggio e la possibilità di sviluppare progetti
con altri media.
L’altra
parte integrante della tua ricerca è l’oggetto ricamato. Quando e perché nasce
questa tua attitudine, nell’immaginario comune erroneamente collegato alla
sfera femminile?
Dieci
anni fa cercai di sviluppare un progetto su identità, osmosi e l’estrema
difficoltà di veicolare le profonde sensazioni che viviamo nella vita. Erano
stampe su differenti carte da parati. A Buenos Aires, tra arte e moda ho
conosciuto il ricamo. L’intramare, l’antichità di questa tecnica e l’aspetto
tecnologico (sono prodotti o con macchine manuali da ricamo o da macchine
elettroniche) mi ha affascinato tantissimo. Ho cominciato così quattro anni fa
con un progetto sull' “Estetica del terrore” e un altro sulla memoria; trasformare frammenti di reale in
ricami è per me una sintesi contundente tra forma e contenuto.
Per
abbeverare la tua attività artistica a quale fonte ti attingi?
Architettura,
Urbanismo, Sociologia, News e pubblicità quando sono a casa di altri o quando
sono in un caffè, cinema. Da queste fonti ricavo i messaggi e i contenuti che
vengono prodotti nelle società contemporanee, rifletto sulla loro circolazione,
elaboro il mio punto di vista.
Prossimi
progetti espositivi? Di vita, anche quello di tornare a Buenos Aires dove ormai
vivi da anni?
A
Novembre, a New York, per Producing Censorchip del Premio Celeste, espongo un
ricamo. Una tela di un altro lavoro il cui tema sono le paure sociali,
l’incentivazione di queste attraverso i media, le forme di potere e
segregazione nelle città (che siano Favelas o Gated Communities). A Gennaio
raggiungo di nuovo la mia compagna a Buenos Aires, e lì continuerò a ricamare
tessuti.
ANDRAS CALAMANDREI è nato nel 1975 a Zofingen
(Svizzera), vive e lavora a Buenos Aires (Argentina)
(Pubblicata
su www.espoarte.net dal 26 ottobre 2011)
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