Intervista a ROBERT GLIGOROV
di Marta Casati
Incontro Robert Gligorov nel suo studio di Milano nel 2006 per una lunga e piacevole chiaccherata.
Inizio chiedendoti della tua mostra più recente, Full
Contact a
Certaldo. Considerando la cornice che la ospita, hai sentito l’imponenza di
pareti così antiche e con un bagaglio imponente del passato? Ha per te valore
di una retrospettiva?
La mostra a Certaldo rientra perfettamente in uno dei miei
progetti, ossia quello di esporre in paesini, paesi piccoli o relativamente
piccoli ma che hanno una loro storia a livello architettonico. Se ci sono - non
soltanto in Italia ma anche in giro per il mondo - paesi così belli, così
particolari, per me è un onore poter esporre nei loro palazzi storici. Lo trovo
un contrasto molto violento tra mura, affreschi, dipinti tanto antichi abbinati
poi a un video e a un’immagine di oggi. Qualcuno ha anche contestato le scelte
fatte del Comune circa la mostra. Ci sono stati molte lamentele ma ovviamente
anche molti consensi: se tu pensi che questa mostra di Certaldo è già stata
vista da ben 20.000 persone!
Tra l’altro è stata anche da poco inaugurata.
Infatti. Pensa che all’inaugurazione c’erano dieci o
quindici persone e che invece, ogni giorno, c’è un incredibile via-vai di
persone da tutto il mondo. Non c’è stata alcuna altra mostra che mi abbia dato
una visibilità tale. Una mostra in galleria può arrivare a un totale di 500 o
600 o 800 persone al massimo ma a arrivare a 20.000! Tornando alla tua domanda
iniziale, posso dirti che è stata come una parte di una retrospettiva:
realizzarne una in maniera dettagliata tra dipinti, installazioni un’idea in
cui potessi ripetermi e ripeterla all’infinito, come fosse un modulo vincente e
disegni è un lavoro molto lungo e meticoloso. In questo caso non ho voluto concentrarmi troppo sul taglio
retrospettivo. Diciamo che è una mostra retrospettiva per i miei lavori
fotografici, selezionandone circa venti o venticinque. Quello che ho notato è
che è davvero importante esporre perché così vedi meglio il tuo lavoro. Ti
rendi conto po’ meglio di quel
lavoro solo una volta che è appeso e solo dopo che ha incontrato e ha avuto
l’impatto con la gente. Quando operi in studio, con i tuoi tecnici o con i
laboratori, non ti rendi bene conto perché sei sempre schiavo di qualche
problema tecnico, solo quando lo vedi esposto in spazi così grandi, invece che
in gallerie, ti rendi davvero conto della sua forza.
Come fosse un punto di verifica e di arrivo ma, nello
stesso tempo, una partenza di una nuova visione…
E di perfezionamento. Nell’arte i lavori più sono vecchi,
un po’ come il prosciutto, più hanno sapore. “Ah,quel periodo era felice!” o
“ah, in quel periodo…. quante idee!”. Sempre quel periodo, mai quello di oggi,
sempre quello passato. Ma estraendo lavori vecchi, e già ormai da me digeriti,
faccio fatica ad amarli, a rivederli, perché il mio è un lavoro rapido. A me
interessa il dialogo, il viso, la performance e lì devono morire. Il fatto di
conservare l’oggetto, di mitizzarlo, è l’esatto opposto del concetto dal
quale nasce. Noi artisti siamo un
po’ come i cantanti: il cantante ripete lo stesso pezzo centinaia di volte
durante i suoi concerti, così noi che proponendo lo stesso lavoro fingiamo
anche il nostro entusiasmo. Se intendessi esporre i lavori più vecchi, lo fanno altri
per me che hanno raccolto quanto possa esserci in giro e mi invitano
all’inaugurazione. Ma se io dovessi organizzare una retrospettiva e portare i
miei lavori implicherebbe che io ci creda, ma io non ci credo. Io credo
nell’immediatezza di quel periodo. Infatti molti dei miei lavori sono legati a
un’epoca o a un periodo. Tu sposi un modulo e fai solo quello e lo ripeti
all’infinito, facendo solo delle piccole modifiche all’interno di ogni cosa. Io
non ce la farei ad aver avuto a vent’anni un’idea vincente e ripeterla poi
anche a trenta o a quaranta solo per andare sul sicuro. Io in qualche modo nego tutto quello che ho fatto in
passato. Non mi riconosco più in quello che ho fatto e ho avanti nuove prospettive
e nuovi progetti, fino a quando ci sarà la voglia ovviamente. Perché alla base
di tutto c’è l’energia necessaria per produrre. Alla fine di tutto, l’aspetto
più esilarante di questo lavoro (sempre che sia un lavoro) è quando stai
accarezzando e hai la sensazione che l’idea sia quella giusta, come se fosse
una droga. È allora lì che provi eccitazione. Ma se in realtà provi
insofferenza mentre lo fai, non vedi l’ora che finisca, vuol dire che c’è
qualcosa che non funziona. Stai ripetendo un modulo che sta annoiando te per
primo ma il mondo è grande e non tutti conoscono il tuo lavoro, come le 20.000
persone di Certaldo. Magari 1600 mi conoscevano già e hanno detto: “Ah, guarda,
Gligorov!”. O altri invece che hanno detto: “Ma cosa è questa roba??”. Così ti
rendi anche conto quanto il mondo dell’arte sia lontano dal mondo reale. Nel
mondo dell’arte tutti conoscono quasi tutti ma appena tu esci fuori, anche i
più grandi artisti, non li conosce nessuno.
Spesso siamo proprio noi, i cosiddetti addetti ai lavori,
che diamo ogni cosa per scontata e già nota ai più anche quando non lo è
affatto, grave errore.
Assolutamente. Poi pensa con quale arroganza ci
rivolgiamo, ossia proponiamo qualche cosa senza che poi ci sia una promozione
adeguata o un metodo che arrivi davvero alle persone. Uno potrebbe dire: “ma io
mi rivolgo al mondo dell’arte!”. Ma il mondo dell’arte è troppo piccolo. Perché
uno dovrebbe lavorare tutta la vita solo per il mondo dell’arte? Saranno in
tutto tremila persone! Se io devo dedicare la mia vita per rivolgermi solo a
tremila persone -che poi tanto non convincerai mai se non per quelle cento -
tanto vale rivolgersi a tutti. Non per questo però scendo a compromessi con il
mio lavoro e realizzo lavori più “facili”. Agisco con la stessa libertà di
pensiero e di azione, ma anche per un pubblico che non è così abituato a
leggere quei segnali, senza che l’arte diventi di massa, perché poi sarebbe di
culto. Può anche conservare questo aspetto elitario, basta che alla fine
arrivi. Un mio amico direttore di banca in questi giorni mi ha
detto: “Ero a New York l’altro giorno. Ogni sera ero fuori a cena e ogni sera,
regolarmente, c’era un artista. Ma come è questa storia? Quanti siete!?!”. Un
po’ come se ci fosse un inflazione: più va male l’economia più aumentano gli
artisti! Con il fatto che oggi non occorre più una manualità, basta avere un
atteggiamento progettuale costruttivo con dei tecnici ed ecco lì che puoi fare
delle opere!
E poter scrivere sul bigliettino da visita la
definizione di “artista”, che piace così tanto!
Sicuramente c’è un incremento da parte anche di chi
investe, come fondazioni, galleristi, ex collezionisti che diventano galleristi
e che a loro volta diventano mecenati e promotori, e ancora e ancora. Di sicuro
c’è un’espansione, non so se poi esista anche tanta domanda del prodotto, in
ugual misura. Sicuramente c’è molta proposta.
Troppa! Si ha soprattutto una ridicola fluidità di
passaggio da uno stato creativo all’altro. Della serie: “Adesso lavoro con il
video: sai prima facevo il pittore ma, dato che non ‘funzionava’, adesso ho
cambiato!”. Incredibile! Ecco che quindi spetta all’intuito di chi ascolta e
recepisce di capire e valutare. Ben accetta sia la non-costanza [intesa come
continua ricerca per non ripetere all’infinito il modulo a cui prima abbiamo
accennato] ma non il caso e l’improvvisazione.
Pensa a quanti sono gli artisti che sono morti giovani e
che hanno prodotto poche opere nella loro vita, come Veermer o come Caravaggio.
Io penso che un artista possa fare anche un solo capolavoro, se gli riesce. Non
c’è bisogno di produrre all’infinito. Non deve essere una catena di montaggio!
Tu sei sempre lì nella tua officina a produrre ma in realtà quello che conta è
meno prodotti e più capolavori
Quello che manca oggi: meno
quantità e più qualità.
Assolutamente. Puoi produrre molto
meno ma puoi produrre un capolavoro all’anno. È più che sufficiente. C’è
bisogno di quello. Così hai dedicato una o due anni a un’opera che è
importante. Quando la esponi senti che è forte. Poi c’è un altro grosso
contrasto: ci sono persone che prima sperimentano e fanno delle cose per così
dire “innovative” ma poi, quando le espongono o in galleria o nelle fiere,
vanno in depressione se non le vendono. Che l’arte sia un business ormai si sa,
ma devi fare un oggetto che, proprio a livello oggettivo, sembri un oggetto
d’arte. Ma l’arte sfugge l’oggetto, soprattutto quella più concettuale, nega
l’oggetto; negando l’oggetto arrivi all’estreme conseguenze. E quindi cosa
vendi? Domanda: “La fiera è andata male?” Risposta: “Si ma il pubblico mi deve
seguire anche quando io nego l’oggetto!”.
Il tuo amico, se vorrà avere la
stessa sensazione anche qui in Italia, basta che giri per Milano e si accorgerà
che anche qui sono tutti
artisti…..
Si vede che New York e Milano
hanno la massima inflazione di gallerie e artisti! In fondo l’arte (l’arte, non
il mondo dell’arte) è un mondo così bello, magico, che ha un aspetto tutto suo.
Sarebbe un peccato perdere quel gusto dell’arte in cui poi rientra anche l’oggetto
artistico. Mentre del mondo dell’arte chi se ne frega! È un mondo come un
altro, come quello della finanza in cui ci sono mille strategie e modi di far
carriera. Nel mondo dell’arte idem. Certo che conta più la strategia dell’oggetto artistico.
Molti artisti in vita hanno fatto la fame come Rembrandt e altri invece (mi
viene in mente un pittore pompier Alma-Tadema) sono stati ricchi. Tiziano ad
esempio è stato un altro che ha saputo gestire bene le sue relazioni, altri
invece avevano un caratteraccio e non hanno saputo farlo. Come oggi che ci sono
artisti che non sanno spiegare neppure cosa fanno.
Sono coloro che vengono
surclassati da quelli che hanno capito altri aspetti più pratici e concreti…
… e poi che sono quelli che
“arrivano”. Non sempre però chi arriva è solo furbo. Spessa ha anche un bel
oggetto. Se ha avuto una buona analisi di strategia, di sicuro ha anche una
buona analisi per capire quale sia l’oggetto che funziona e quale no. Se tu
guardi i grandi artisti hanno come
corrispettivo i grandi stilisti:
il progetto è perfetto. Se tu prendi un vestito firmato noti che le rifiniture
sono state realizzate veramente bene. Se tu prendi un’opera di un artista
contemporaneo ormai esploso, noto, vedrai che l’oggetto è fatto bene. La
meticolosità del grande artista sta nel rifinire e ultimare l’opera in maniera
impeccabile. Quando da l’ok, quello vale come la sua firma. Anche se non la
realizza lui, è lui che deve dare l’ok. Altrimenti significa che l’opera non è
opera.
Perché, come dicevamo prima, di
capolavori se ne ha uno l’anno.
Ma neanche uno all’anno, io dico
uno nella vita! Già se ne hai realizzato uno forte nel corso di tutta la vita è
già moltissimo. Poi dipende per cosa sì considera per “capolavoro” e cosa si
intende per “oggetto artistico”. Ci sono tante mostre che lasciano una
sensazione tiepida, fredda. Credo che la mostra debba invece avere valore di
un’esperienza e l’esperienza deve essere una sorta di meraviglia. Tu devi
meravigliarti di fronte a l’opera. Questo deve essere il senso dell’esperienza.
Non si va ad una mostra soltanto per andare ad una mostra. Devi andare ad un
avvenimento perché l’artista, di quello che ha vissuto e di quello che ha
fatto, sta portando un’esperienza in uno spazio espositivo. Tu, che in qualche
modo ti accingi alla mostra, devi essere in grado di vivere un’esperienza,
quell’esperienza.
Concetto che appartiene anche
al tuo modo di concepire l’arte come performance da vivere qui, ora, subito.
E se non è così, non è perché lo
spettatore non capisce ma solo perché l’opera è debole. Infatti non c’è niente
di peggiore in filosofia di un pensiero debole, come nell’arte un’opera debole.
Quando ti avvicini al lavoro
esposto, lo avverti chiaramente…
Lo avverti con chiarezza. Ora
capisci che, cercando un quadro, un oggetto, un’opera che abbia le sue caratteristiche ma che nello
stesso tempo sia anche innovativa, ecc…, alla fine potresti anche impazzire
perché non c’è una chiave teorica ma c’è solo una chiave legata all’artista e
all’esperienza. Così l’artista dialoga o con i tecnici o con i collaboratori o
con altri ancora, oppure con i propri fogli o con i propri oggetti e anche può
accadere che “arrivi”. Spesso a certe grandi invenzioni gli ideatori vi sono
arrivati casualmente, come anche nell’arte. Osservando per caso qualche cosa,
da lì puoi notare se possa nascere qualcos’altro. Non sempre mettendoti lì a
riflettere e a pensare si può generare un prodotto valido perché un’opera che è
potente. Le cose semplici non e’ detto che siano facili da realizzare.
Lo stesso accade nella
scrittura. Scrivere bene non significa scrivere complesso. I più grandi si
esprimono con semplicità.
Lo stesso nell’arte. Quando vedi
un oggetto semplice ha dentro una forza prorompente in grado di emanare forza
evocativa e sinceramente ne sono attratto.
Un po’ come per quella bambina
lì disegnata [indico
il quadro posto di fronte a me, appoggiato alla parete dello studio,
raffigurante una bambina bionda] che è potentissimo, incisivo e semplice.
Sì è vero. E’ opera di mia figlia
quando aveva 6 anni . Guarda quanti ne ha realizzati! [Gligorov indica con la mano destra altri dipinti più piccoli ma
riuniti insieme in un angolo della stessa parete].
Se ti fosse imposto di
rinunciare alla fotografia o al video come strumenti a te necessari per
esprimerti, del quale potresti farne a meno, pur duramente?
Forse potrei rinunciare al video,
perché il problema del video è l’organizzazione: presuppone un grande apparato
organizzativo. Tutto è molto complesso e complicato ed è molto laborioso anche
solo esporre un video. Necessita di un proiettore, di un certo tipo di spazio,
di uno schermo. Se fossimo in un contesto ideale: allora potrei anche
rinunciare alla fotografia che, in quanto documentaristica, è più lontana dal
mio lavoro istantaneo e immediato. Se ci fosse la disponibilità di una infinità
di denaro, tecnici, spazi, laboratori e quant’altro, potrei rinunciare alla
foto. Il mio lavoro si compone di tante foto ma non mi ritengo un fotografo. La
fotografia documenta soltanto la mia performance, documenta un assemblaggio di
cose che ho fatto ma in realtà io non la amo. Non ho mai guardato una foto e
dopo affermato: “Cavoli! Che bella foto!”. Semplicemente non ho mai preso
spunto dalla fotografia che però, effettivamente, è molto pratica per le mie
cose, più di un dipinto.
E se (sempre lo stesso
“simpatico” individuo) ti chiedesse di scegliere solo un tuo lavoro in grado di
rappresentarti in tutto e per tutto, quale sarebbe e perché?
È un video. Ne sono certo. È Fine,
appena, mai.
Perchè è ancora così attuale
nel tuo percorso artistico o esistenziale?
Risulta in qualche modo il più
duro, diciamo il più forte. A volte ci sono delle combinazioni in cui accadono
nella vita delle cose e l’idea si
combina, così, magicamente. Ma non accade sempre.
Mi stai parlando di una
combinazione reale tra arte e vita e di quanto gira intorno in quel preciso
momento…
Esatto. I fatti della vita fanno
in modo di concatenarsi in maniera risuonante. Questo video, ad esempio, è
reale, non è un video “messa in scena”.
Ma cosa è indispensabile per
essere un buon artista e cosa per fare buona arte, anche senza essere un bravo
artista?
Ci sono personaggi, cosiddetti
“furbi”, nel mondo dell’arte che hanno messo in scena una serie di elementi che
fanno pensare, apparentemente, che quello sia un buon artista. Questo accade
sia nell’arte contemporanea sia nell’arte, diciamo, un po’ più commerciale. Ci
sono una serie di ingredienti che lo permettono, ma lo stesso potrebbe essere
per un lavoro più concettuale. Ad esempio un lavoro in cui si decida,
concettualmente, cosa si debba fare per essere un “bravo artista”. Uno può
anche costruirlo e dire: “quale è l’idea che la società ha di come debba essere
un artista?”. Già questo potrebbe essere un lavoro concettuale. Mi sembra che proprio
qualche anno fa qualche artista russa ha creato il quadro perfetto, affermando
ad esempio che debba essere monocromo, di colore azzurro, che deve contenere la
figura di una donna, debba contenere un paesaggio, ci debba essere pittura
stesa in un determinato modo, ecc…. Quindi, in realtà, ci sono una serie di
connotati per cui l’oggetto venga riconosciuto e classificato come tale. Gli
ingredienti però, a differenza di altri ambiti come per esempio l’ingegneria –
in cui occorre costruire qualcosa che sia funzionale e funzionante – nell’arte
c’è bisogno di una mediazione tra il pensiero e l’oggetto. Ci deve essere una
specie di tramite, ci deve essere una sorta di facilità nell’avere delle
intuizioni. Come dicevo prima, il grande artista lo si scopre nell’esecuzione
dell’opera: come riesce a farla, a renderla inattaccabile, da fare in modo che
non abbia cadute o debolezze. A differenza di tanti altri mondi, in questo gli
ingredienti sono indubbiamente il talento, anche se non deve essere per forza
di tipo accademico, ma deve essere il talento della lettura del proprio
pensiero e la successiva capacità di tradurlo in oggetto. Sempre che questo
riesca. Non sempre questa cosa accade. A volte il pensiero è buono ma l’oggetto
è debole. Certi oggetti a volte sono deboli pur essendo generati da un pensiero
solido. O viceversa. Mi viene in mente, ad esempio, Ron Mueck che realizza
sculture iperrealiste ma si vede quanto dietro ci sia un pensiero debole.
Realizza un lavoro in cui si vede, dalla resa delle vene o dei peli, quanto ne
resti impressionato, ma presto ti accorgi che è solo un aspetto superficiale e
non c’è dietro un forza di pensiero davvero trascinante. La capacità di
scegliere la propria idea e dire “è questa”. Da qui nasce “il taglio è questo”,
“il materiale è questo”, “il colore è questo”. L’artista decide proprio come
fosse un regista. Sta solo qui la difficoltà: puoi imboccare dieci cose giuste
per poi sbagliarne una sola. Ma arrivi allo sbaglio sempre e solo tramite una
serie di ragionamenti. In questi casi a volte penso che sarebbe meglio lavorare
in gruppo perché così si ha il confronto, si parla e ci si confronta. Adesso,
tra l’altro, sta andando anche molto di moda il gruppo perché si tende sempre
più a indebolire il mito dell’artista. Così non si sa con esattezza chi siano i
protagonisti, gli artisti singoli, anche se poi al suo interno ci sarà un
leader. L’elemento importante è che dentro c’è dialogo, perché tra un confronto
e l’altro si possono annullare delle debolezze. Se invece sei da solo, parli da
solo, ragioni sempre da solo a volte perdi di vista il senso. Ecco che una
delle più grandi capacità di un’ artista, a volte, è quella di saper dire
“questo va bene”. Ecco la scelta.
Perché, soprattutto, scegliere
comporta delle responsabilità...
Sì, poi magari dopo tre mesi ti
accorgi che hai sbagliato. Perché se abbandoni l’oggetto che hai fatto e lo
riguardi dopo svariati mesi è come guardarsi allo specchio la prima volta. Il
massimo sarebbe che tu realizzi un’opera ma poi, tu artista, potessi avere la
possibilità di vederla la prima volta, come se non l’avessi mai vista. Ecco che
in quel momento avrai il pensiero non inquinato e sincero rispetto a
quell’oggetto.
Come se l’oggetto avesse ormai
vita propria e si fosse distaccato da te artista.
Poi magari accade anche che tu la
difenda così tanto solo perché è opera tua ma se l’avesse fatta un altro
diresti “che cazzata!”. Ecco come la mente viene ingannata! Ma conta solo la
capacità di saper scegliere le cose. Come prendere una tavolozza piena di colori
e abbinare tot verde con tot bianco con tot rosso e trovare la tonalità giusta
per poter dire “questo abbinato a quello” che poi alla fine si compone nella
somma delle scelte. Quindi, tornando alla tua domanda, indubbiamente occorre
talento e capacità di trasferire dal pensiero all’oggetto, avere una mente
anche, se vogliamo, particolare. L’altro giorno vedevo in tv il regista
Bellocchio che diceva: “Gli artisti sono degli idioti”. E in qualche modo è
vero. L’artista, il fotografo come lo scrittore come il cantante e come tutti i
sognatori sono un po’ degli idioti perché si occupano di un cosa effimera che
non ha una verità oggettiva. E non va neanche giustificato: è quello che è. In
un certo senso si è voluto costruire il mondo dell’arte. C’è qualcuno che è
andato in qualche modo a catalogare quello che hanno fatto in passato i pittori
con le loro opere ma l’arte non nasce come qualcosa che ad un certo punto ha il
nome “arte”. La storia ha dimostrato che tante delle opere che venivano
realizzate non potevano essere presentate come opere artistiche. Nel
Rinascimento, ad esempio, non tutto passava come arte. Si realizzavano degli
oggetti che dovevano essere funzionali, come oggi è un po’ per
l’architettura.
L’architettura che non risponde
alla domanda “è bello o è brutto” ma “è utile o meno”, come forse dovrebbe fare
anche l’arte.
Invece oggi nell’arte rientra
tutto quello che è prodotto, anche quello che in passato non sarebbe mai stato
concesso. C’è un passaggio nel Corano che dice che le persone che avranno
maggiori sofferenze all’Inferno saranno gli scultori. In tutto questo passaggio
molto minaccioso si descrivono noi occidentali che riprendiamo o cerchiamo di
riprodurre le immagini, il volto di Dio, la figura, ecc…,come fautori di un
peccato gravissimo, quello della rappresentazione. “Nel passato quindi tutte le
creazioni nascevano come arte contemporanea”. Non è vero! E’ un’invenzione
recente questa qua, non è vero! In realtà si fa una costruzione teorica e si
cerca di costruirci un mondo ma, di fatto, non c’è questo mondo. Mentre esiste
quello della finanza o quello delle carni bovine quello dell’arte non esiste.
Così concordo con Bellocchio, che ovviamente anche lui si sentiva rientrare in
questo commento, perché c’è questo atteggiamento abbastanza illusorio di
guardare al mondo. Pensando a Dostoevskij, lui diceva che la bellezza salverà
il mondo. Lo stesso ogni artista pensa che grazie al suo operato potrà salvare
il mondo. Picasso ogni giorno dipingeva e ogni giorno pensava che stesse
salvando il mondo, “lottava per migliorarlo”.
Equivale a credere di poter
lasciare il mondo migliore di quanto lo si è trovato.
Ma è un luogo comune! Non è vero,
non corrisponde. In realtà bisogna negare tutto: ecco la verità. Non c’è un
mondo contemporaneo, non c’è un’arte contemporanea, non c’è. La si inventa da
quanto è astratta e in qualche modo si cerca di darle una forma. Ecco
giustificata la presenza di tanti pareri contrastanti, chi su qualcuno afferma
“è un genio!” e altri invece “no, è un cane!”. Una volta era molto più facile:
se sapevi suonare il pianoforte in un certo modo era un risultato oggettivo,
come potrebbe essere per uno sportivo ottenere certi traguardi. Ecco che invece
questo astrattismo dell’oggetto, in una tale transitorietà del mondo, lo si cerca
di definirlo e di connotalo ma è come una piovra. È come acqua nell’aria.
Parliamo ora di un operaio che
sta per entrare in fabbrica. Alza gli occhi al cielo e in vetta all’enorme
complesso della fabbrica legge: “Il lavoro rende liberi”. Si rincuora, tira un
sospiro di sollievo ed entra[1]. Ti chiedo un aggettivo per
descrivere questo lavoro e la libertà.
La frase è una citazione dai campi
di concentramento di Auschwitz e in questo lavoro ha una funzione ironica e
provocatoria perché ovviamente in quel contesto la libertà non c’era ma libertà
era uscire da quel posto. Io ho ripreso quella frase e lo unita a quella
fabbrica che in quel caso era la Fiat ma poteva essere qualsiasi altra, la
General Motors, la Microsoft o qualsiasi altra fabbrica in cui la gente perché
io da “idiota”, ossia l’artista come diceva Bellocchio, ritengo che il lavoro
abbruttisce. Ma allora davvero il lavoro ti rende liberi o piuttosto ti
schiavizza tutta la vita? Il lavoro ti fa sopravvivere ed ecco che è una
libertà relativa. Il mio slogan in quel lavoro era ironico ma legato al
pensiero del lavoro, non di quella azienda in particolare. Il mio slogan non è
legato agli Ebrei o alla Shoa, è solo un simbolo e, come tutti i simboli, è un
punto di riferimento da seguire. Ecco che se una persona va in fabbrica e
lavora è un po’ simile a quella persona che andava a morire. Quel “Il lavoro
rende libero” assume la stessa valenza di una religione che ti tranquillizza
dicendo “soffri e fatica in questa vita perché poi sarai ricompensato in quella
futura”. E questa è proprio la mia polemica contro il fatto che tutti vogliono
lavorare e tutti vogliono avere….
…..la sicurezza del “posto
fisso”…..
Giustamente! Perché il mondo è
legato all’economia ed è legato a dei parametri che se decidi di non seguire
sei distrutto. Il comunismo ci ha provato a dare la sua risposta e lo stesso il
capitalismo ci sta provando, ma anche questo ha una sua fine. Ecco che se non
segui quella strada, per la massa di persone che siamo, sembra impossibile
sopravvivere. Così se riesco ad avere milletrecento euro a fine mese posso
dire: “In fondo sono anche fortunato perché ho un lavoro!”. Ma allora mi rendo
conto che la vita, l’artista idiota te lo fa notare e ti dice: “il lavoro ti
rende libero”. “Perfetto” è la risposta, e lui è come me e va a prendere questi
soldi. “Altrimenti cosa faccio? Vado a rubare? Devo ammazzare per prendere
questi soldi?” è in genere la domanda che viene fatta. Questo perché il sistema
è costruito in questo modo e tu sei intrappolato all’interno. Non dico che sia
giusto ma riflette che la vita passa e una volta che è passata la giovinezza la
vita è passata. Poi magari hai una bellissima vecchiaia ma una volta che è
passata la giovinezza, che è passata l’energia di correre, saltare con le tue
gambe e non rompi le balle agli altri e sei indipendente, se ne è andata via
buona parte del tuo tempo. Io non voglio essere un peso per gli altri. Non
voglio diventare vecchio ed essere di peso ai miei figli. Quando ormai è
passata la giovinezza come capacità di essere abile, ritengo che oramai sia
passata la vita.
Il tuo approccio all’arte, il
tuo essere idiota-artista, lo si potrebbe paragonare ad un animale? E quale?
Vorrei tanto più essere un animale
che un essere umano, anche senza la coscienza perché non è sempre così
positiva. Si ha sempre l’ansia della morte che l’animale non ha, non sa che un
giorno morirà. Nel oro caso o ti mangiano altri o muori lì per lì. Noi invece
passiamo tutta la nostra vita, ad un certo punto poi divenuti adulti, sapendo che
un giorno moriremo. Questa cosa ti accompagna e ha anche il suo bello ma poi
non basta mai perché devi sempre coltivare, sempre costruire un maggiore
interesse. Ma la vita è fatta
anche di cazzate e non riesci ad essere sempre ad un livello che il tuo
cervello sia stimolato. Quindi io la coscienza la lascerei volentieri anche a
qualcun altro! In questo mondo anche se volessi essere un animale non puoi: ti
sparano! Ti fanno fuori! Certo che mi piacerebbe volare! Poi però passa il
cacciatore che mi spara o passa un altro rapace che mi prende via con sé.
Oppure mi piacerebbe essere un cavallo, uno stallone, o anche un gatto, ma devo
sapere che è pericoloso. In questo mondo una delle cose più perfette sono
proprio gli animali, a prescindere dell’ essere umano che vive di merda la
maggior parte del suo tempo. Fanno eccezione gatti e cani viziati con il loro bel collarino con il nome,
hanno la cuccetta, hanno la pappa buona ma io vivo qui a China Town e qui un
gatto non si vede perché i cinesi fanno fuori tutto! Perché in Oriente c’è
questo detto. “Qualsiasi cosa che si muove è mangiabile”, ossia qualsiasi cosa
che striscia o che si muove può essere mangiato. Ovvio che nelle condizioni in
cui questi uomini fanno vivere gli animali preferisco non nascere animale, anzi
preferisco non nascere. Sempre che mi vada così bene di nascere in un Paese di
questo mondo abbastanza libero che non mi faccia neppure penare di essere nato
uomo. Perché nell’80% di questo mondo i diritti civili non esistono. Noi
vediamo la realtà di questo mondo con altri occhi perché noi viviamo in questo
Paese fortunato, ma non è così, è una tragedia. Mi piacerebbe nascere, sì, un
uccello rapace, un falco, certo non un lombrico, ma effettivamente è
pericoloso! Dopo che nasco cercano subito di uccidere; almeno un pollo muore
subito, con la testa tagliata, ma il maiale ad esempio muore male. Gli tagliano
la vena e fino a quando non è dissanguato non muore questo poveraccio.
Quasi verrebbe da invertire la
scala gerarchica, sempre che ne esistesse una, e porre al primo posto le
pietre, poi gli animali e le
piante, infine, in basso, l’uomo.
Questo uomo, questo essere umano
(dopo “Il lavoro rende liberi” voglio fare un lavoro sugli animali) è crudele.
Ora non voglio passare da quello che odia la razza umana ma mi avvicino, è
cattivo. È meno cattivo il leone che almeno si mangia vivo lo gnu ma almeno lo
fa quando davvero ne ha bisogno. Come al tempo dei dinosauri (proprio ieri
guardavo un documentario) che tutti pensano che i tirannosaurus rex fossero stati
terribili, che rincorrevano e sbranavano la preda. Ma non è vero: mangiavano le
carogne. I loro denti non erano
come quelli di altri simili che erano come coltelli ma erano denti che
spezzavano le ossa. Loro avevano le zampine corte e non potevano afferrare un
bel niente!
I veri tirannosauri siamo ma
noi umani!
L’essere umano è davvero di più,
di più crudele. È inenarrabile la cattiveria, il sadismo che riesce a produrre
un uomo. Riesce a fare anche del bene ma riesce a fare anche del male “grazie”
al male che hanno prodotto altri. Questo è un mondo crudele, la parte dei buoni
è in minoranza, c’è poco da fare. È veramente pericoloso. Tu pensi di vivere in
Italia e che sia un Paese libero? Basta che ci sia un colpo di Stato e ti trovi
a casa tua gente che ti porta via il fratello e il 40/50 % delle persone del
tuo Paese te le ritrovi nemiche anche se oggi apparentemente non sembra che tu
abbia nemici. Io vengo da un Paese l’Jugoslavia e questa cosa l’ho vissuta.
Sembravano tanto fratelli, sembrava che tanto odiassero i tedeschi o che
odiassero gli italiani che chiamavano “mangiagatti”, sembrava tanto che
avessero vinto la guerra con Tito, è bastato un attimo, subito dopo morto Tito,
e ogni Repubblica è voluta essere indipendente e si sono scannati tutti: ben
duecentocinquantamila morti. Il Danubio era rosso. Rosso di sangue, non per le
luci del tramonto. Ma come mai, da dove cazzo nasce questa cosa? Ad un certo
punto si scatena un qualche cosa in cui altrochè che animale vuoi nascere! Ma
allora davvero forse meglio non nascere in questo pianeta.
[Attimo di pausa. Poi l’attenzione di entrambi torna
sul video “Fine,appena,mai” che durante l’intervista continua a svolgersi sullo
schermo].
La cosa che mi piace di questo
video è che è come deve essere l’arte: vero. L’arte deve essere vera, non deve
essere finzione. Invece si tende oggi a essere molto raffinati come i
designers. Il design è finto. L’abbellimento eccessivo di un oggetto è finto.
Invece l’arte può essere fatta con materiale povero (infatti mi piace molto
l’arte povera) però deve essere vero. Beyus metteva insieme degli assemblaggi
diversi ma gli oggetti avevano verità all’interno e quindi trasudavano verita’.
Pensa che questo video è nato in un momento preciso, che ha un significato. In
uno primo momento potrebbe sembrava che voglia provocare shock e invece per me,
come nessun mio lavoro, non deve generare shock.
Infatti la mia domanda è:
meglio stupire per ottenere o ottenere di stupire?
Io ti posso dire cosa vorrei
essere nella vita: o un comico o uno sportivo. Però il numero uno. Quindi mi
piacerebbe stupire perché la meraviglia della risata è una cosa magica. Quando
una persona ride per una tua battuta è una cosa meravigliosa. Trovo che sia la
più grande abilità di un essere umano questa capacità di far ridere. L’essere
esilaranti ed essere un comico: questo uno dei miei sogni. L’altro invece è
l’essere nato come campioncino in qualche disciplina , come nei 100 metri
piani, in modo tale che la mai vita fosse passata a correre (in questo caso “la
corsa rende liberi” invece del lavoro). Invece nell’arte è il mettere insieme
queste due cose e cercare, più di stupire o scioccare, meravigliare. Vorrei che
chi si trova di fronte a una mia opera vivesse un’esperienza. Il video che
stiamo vedendo è di un moneto particolare della mai vita. Stavo divorziando e
volevo addirittura farlo con l’altra persona che però, quando è venuta sul set
si è ritirata perché si spaventata[2]. Così ho deciso di farlo da solo
e ho collegato con un filo conduttore i tre punti del mio corpo, testa, cuore e
stomaco (ossia i tre punti emotivi) per poi steccare i legami che mi univano a
questo fiore, che mi ero appuntato sopra il cuore che poi lasciavano libero,
spurgando con del salasso il sangue che sgorgava dal cuore. Qualcuno potrebbe
anche dirmi: “ma come, soffri ma sei anche così razionale da costruirci un
lavoro?”. No, la mia risposta. Il lavoro è arrivato dopo, prima con u
disegnino, poi il video, con tutta la sua costruzione. Poi mi sono preso la
briga di realizzarlo anche se l’altra persona si è rifiutata di farlo insieme a
me.
Il giglio invece cosa
rappresenta?
Il giglio mi rappresenta. Una
volta ho fatto un film con Squiteri che mi disse: “Tendi un po’ a fare il
teatrino”come attore . Questa osservazione mi viene alla mente spesso perché
effettivamente in parte è vera. Non so perché ma a volte quando realizzo dei
progetti tendo a fare del teatrino ma solo perché sono anche come persona così.
Tendo a costruire delle scene che possono sembrare finte ma sono vere nel momento
esatto in cui nella vita quello sono io. Anche quel fiore rientra in questo
teatrino che sono io. Anche De Chirico inscenava i suoi teatrini, in parte
anch’io e già come attore tendevo in questo. Squiteri aveva colto. D’altra
parte quello che sono oggi io e’ il risultato di migliaia di anni di
combinazioni di dna … fino a generare me. Qualche giorno ho trovato una foto di
mio padre e devo dire che gli sto assomigliando sempre più e questa cosa non mi
piace! Da giovane non assomigliavo a nessuno della famiglia e mi chiedevo
“chissà da chi ho preso…2 e invece adesso che sto invecchiando inizia a essere
tutto più chiaro!
Prendiamo tutti da qualcuno,
alla fine siamo anche poco
originali!
Sempre da qualcun altro! Così tu
scopri di aver ereditato delle caratteristiche , malgrado te.
Ma la parte che più ami del tuo
corpo qual’è?
La bocca. Sono sicuro. Il mio è un
lavoro orale, sarà anche legato ad un ansia orale. Effettivamente ho realizzato
tantissimi lavori con la bocca. Tra l’altro amo molto il cibo piccante, anche
se adesso non lo mangio più. Mi piaceva proprio sentire la bocca bruciare.
Quindi i denti, le labbra, il contorno della bocca, le gengive, i colori.
Quando ad esempio incontro una persona con una bocca che mi piace rimango
subito affascinato. La persona può essere anche brutta ma, se ha i denti e la
bocca bella, è già bella. La bocca è la prima parte dell’apparato digerente e
se questa persona è sana così apparentemente, significa che è sana anche
all’interno e ottima per riprodursi. Se invece ha i denti marci, con la lingua
strana, le gengive nere, una bocca che ha una forma strana, le labbra sottili ,
ecc….oh, io con quella non mi riproduco!!
(Pubblicata su ESPOARTE di GIUGNO-LUGLIO 2006)
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