sabato 9 febbraio 2013

MARZIA MIGLIORA


Intervista a MARZIA MIGLIORA
di Marta Casati



Intervisto Marzia Migliora nelle sale espositive di EX3 a Firenze prima dell'inaugurazione della mostra RADA (9 giugno 2011).



Il tuo progetto ideato per la sala centrale di EX3, Rada, prende ispirazione spunto da una bandiera il cui segno grafico, nel Codice Internazionale dei segnali marittimi, significa "sospendete quello che state facendo". Cosa, in questo momento, nel tuo immaginario è più urgente interrompere immediatamente?
Sicuramente l’idea di sospendere quello che stiamo/sto facendo indica quel attimo prima di porsi una domanda, quindi il fermarsi per potersela porre. Questo è un qualcosa di fondamentale per un artista così come per ogni persona in generale. Quindi l’idea è quella di offrire un paesaggio e un invito per quest’azione, che non è una pausa spenta ma una pausa attiva in quanto quello che si vede è una pausa di riflessione, una pausa di attenzione a quello che si sta per fare, a quello che si sta per vedere. E’ un invito aperto che poi ognuno  lo rivolge a sé o in maniera più allargata, come ad esempio, a questo Paese, allargandosi a macchia d’olio dal piccolo al grande. L’idea nasce da una bandiera X-Ray che nel codice internazionale dei segnali marini significa “sospendete quello che state facendo”. 

Quando ti sei avvicinata la prima volta a questo linguaggio?
L’innamoramento per tutto il linguaggio nautico l’ho sfiorato la prima volta nel 2008 con un progetto che si chiama My No Man’s Land che è stato esposto la prima volta alla Art Agents Gallery di  Amburgo e in questa mostra ve ne è una piccola parte rappresentata dai tre salvagente fati di sapone. La secchezza di questo linguaggio mi ha affascinato fin da subito. Il mio lavoro spesso parte da testi, da qualcosa che riguarda la lingua e il linguaggio e questo nautico è un linguaggio non fraintendibile nel senso che l’esposizione di questa bandiera significa esclusivamente quello. Non esiste l’interpretazione o il fraintendimento. La mia idea era quella di realizzare la bandiera in scala all’interno di questo spazio andando a costruire un pontile blu che è, in tutto e per tutto, “pontile” ossia attracco sicuro per le barche ma anche punto di partenza per una barca che va verso qualcosa che non conosce, come il mare e i tutti i suoi umori. Le porzioni di bianco della materia sono scarti di marmo che vengono da Carrara, sessanta tonnellate di marmo in lastre e pezzi di varie dimensioni. Quello che mi piaceva di questo materiale è che è la sottrazione per arrivare alla parte voluta, alla parte buona e preziosa. Qui dunque c’è la parte che non è più importante, che non è niente. La scelta di questo materiale è stata data anche da Firenze, dai suoi esempi storici di scultura e anche perché le cave sono tutte  a Carrara. Mi piaceva poi l’idea di mettere il pubblico su un basamento che guarda dall’alto verso il basso una scultura rotta che si sta ricomponendo. Ci si può perdere nel vedere tutti i dettagli degli scarti, che riportano ai segni di un passaggio di una lavorazione umana. Allo stesso tempo questa distesa di marmo diventa ghiacciaio, diventa mare, diventa maceria. Mi piace l’idea di prendere del tempo per guardare questo scarto. E’ come prendere del tempo per guardare qualcosa che abbiamo tralasciato o al quale non avevamo dato importanza. E’ come recuperare una radice, recuperare una storia, recuperare un pezzo di trascorso. Questo mi interessa molto.

Con quali novità tecniche e/o concettuali ti ha portato ad avere a che fare questo progetto?
Con questo progetto ci  troviamo di fronte a molte novità, non per ultima quella di poter affrontare uno spazio di queste dimensioni. Da principio avevo realizzato un progetto immaginando varie situazioni con opere di piccole dimensioni dicendo alla curatrice Arabella Natalini che se per caso fosse sopraggiunto un’ idea che reputavo interessante, in grado di coinvolgere l’intero spazio, l’avrei abbracciata sconvolgendo l’idea iniziale. E così è stato! Il progetto è nato, come spesso accade per i miei lavori, con uno schizzo di pochi centimetri sopra un quaderno dove c’era disegnato un rettangolo con in mezzo una croce blu. Parlando con la curatrice e scorrendo le pagine di questo quaderno, lei ha fermato l’attenzione sull’unico che aveva un colore chiedendo: “ E questo cosa è ?!?!” . E io: “No, niente, è una cosa complicata, non si può fare…”.  Poi ho iniziato a raccontarle il progetto e lei per prima è stata molto coraggiosa, se n’è innamorata subito e dal giorno siamo partiti con i preventivi, la ricerca dei materiali e tutto il resto. Senz’altro questo progetto sfiora l’architettura. Le dimensioni di questo spazio, che sono più di 650 mq in una sala unica rettangolare, sono l’occasione per un artista che non capitano tutti i giorni così come non capita tutti i giorni di accettare questo tipo di spazio. Io ho accettato questo spazio, l’ho accettato nel bene e nel male, ho l’ho accettato nei pregi e nei difetti. La decisione da subito è stata quella di non accettare pareti false, cartongessi, cambiare l’illuminazione, anche se ci sono dei miei interventi di luce nello spazio. L’intento è stato quello di tenerlo così e di cucire qualcosa dentro lo spazio con un lavoro in tutto e per tutto site-specific. Ci sono materiali che non ho mai toccato prima come il marmo, il legno (come in questo caso legno blu), i tubi innocenti. Il neon invece è un materiale che ho già usato ma in questo caso è neon opalino, quello usato nelle insegne pubblicitarie che non ho mai usato prima. 

Dunque sarai stata affascinata anche dalla precisa asciuttezza linguaggio morse, molto usato nell’universo nautico.
Si, infatti  il segnale che emettono i neon è la traduzione del segnale morse. E’ un po’ come un faro, dove in realtà la parte solida di questo faro è fatta dalle persone che sono al centro del pontile. Con il segno “linea-punto-punto-linea”  (siamo all’interno di un linguaggio non verbale) utilizzo questa tecnica che è tipica delle insegne pubblicitarie, una sollecitazione continua ma anche silenziosa e non troppo invadente per lo spettatore. Lo stesso segno è posto all’esterno dello spazio espositivo ad indicare che lì ha ancora più valore il “sospendete quello che state facendo”. L’arte ha bisogno di attenzione per vivere. Questo spazio ha bisogno delle attenzioni degli artisti, ha bisogno delle attenzioni del quartiere per vivere in un momento di difficoltà come questo in Italia, dove non ci sono soldi, dove non ci vengono date le possibilità. C’è dunque bisogno di fermarsi e guardare quello che fanno gli artisti. Questa sospensione può essere dunque anche un messaggio politico. Non ci sono soldi per fare libri, per fare arte. Poi ovvio che gli artisti italiani siano come artisti del Terzo Mondo ma perché quali possibilità ci sono date? Quale possibilità ho io, tolto questo caso, di portare un progetto al pieno della sua forma, così come l’ho pensato? Devi continuamente tagliare e arrivare a qualcosa che è vicino ma non è quello. Io tendo a non farle le cose in questo modo. Piuttosto preferisco non farle, per rispetto del mio lavoro. Tutto ciò è molto triste, ecco dunque che dico: “Beccatevi un po’ di queste macerie!”. 

Immagino anche le difficoltà con le quali ti sarai scontrata a lavorare con dimensioni tanto impegnative.
La cosa strana di lavorare in uno spazio così è quel margine di perdita di controllo perché, a un certo punto, sembra che spazio stia per inghiottirti perché non riesci a stare attenta a quindici operai che stanno facendo quindici cose diverse! E misurarsi con questo margine – e per me rappresenta una forma di ossessione la perdita di controllo – è stato molto interessante. La cosa meravigliosa di lavorare qua è stato vedere quanto l’intera operazione sia stato sostenuta dalle persone che vi hanno lavorato, dagli operai che si trattenevano fino alle otto o alle nove della sera perché vedeva tutti gli altri lavorare con passione agli stagisti con il badile in mano, che si muovevano senza neanche sapere bene cosa stessimo facendo. E poi la curatrice che non si è risparmiata nessuna di queste mansioni faticose o io stessa in prima linea, che non è neanche una mia attitudine realizzare i lavori  con le mani perché un lavoro più d’ idea, di testa. Qui è stato diverso ma sicuramente un’ esperienza bella.  

Adesso finalmente potrai gustarti il lavoro finito. Il risultato è davvero unico.
Io ormai da questo giorno dico che non sono più obiettiva, che non mi sorprendo più ad entrare dalla porta principale. Io non riesco in questo momento a mettermi nella testa di chi possa vedere il mio progetto. Lo vorrei vedere ancora con gli occhi della sorpresa ma ne sono, in questo momento, ne sono troppo inglobata. Alla fine è uno sforzo paradossale pensare, dopo tanto che ci lavori, poterlo vedere ancora con gli occhi della meraviglia, in ogni caso sarei curiosa di poterlo fare. Da poco ho fatto un lavoro al Museo del Novecento di Milano, una audio-guida che le persone possono prendere gratuitamente al guardaroba del Museo così che il lavoro diventa un servizio per il pubblico del Museo. Anche in questo caso di nuovo, com’è accaduto al Muso del Novecento, c’è una attenzione particolare per il pubblico perché questo paesaggio è da vivere, è dedicato alla persona che vi cammina sopra.

Ogni tuo lavoro è un insieme di input trasmessi dal suo complessivo e finale messaggio quasi dopo una sedimentazione semantica. Se dovessi tu stessa fare la curatrice testuale di te stessa, come e in che forma definiresti la tua ricerca?
Definire la mia ricerca è difficile. La frase che dico spesso sul mio lavoro è che la matrice comune a tutti i lavori è un tentativo di parlare con le persone delle persone. Mi interessa il lato umano da tutti i suoi punti di vista, dalla  fragilità, all’amore, dal rapporto di coppia e la relazione al rapporto con lo spazio inteso come un orientamento della persona nel circostante, il dove si trova. Tutte queste sono tematiche che ricorrono nel tempo nelle mie opere. Quello che sta intorno alle persone è quanto più mi attrae ed è anche un tentativo di parlare a un numero grande di persone. Ecco che quindi è un non fare una biografia – penso sia molto poco interessante – anche se ovvio il punto di partenza sono io, da me partono le parole proprio come quelle di uno scrittore. Il punto di vista, sì è il mio ma il tentativo è quello di abbracciare gli altri con tematiche che possono sentire vicine.

Come al solito chiedo di descrivere l’arte contemporanea a ogni artista che intervisto usando solo tre aggettivi: tu quali sceglieresti e perché?
Più che darti tre aggettivi posso dirti quello che penso riguardo l’arte contemporanea. Io ho la speranza che possa almeno stimolare, che possa essere in grado di farmi pensare, farmi fermare a riflettere ed emozionarmi. Quando sopraggiunge l’emozione è bellissimo, straordinario, peccato che sia così raro. Mi accontento anche della parte d’immaginazione, di pensiero. L’importante è che il l’opera che sto osservando sia in grado di generare una mia risposta. È qualcosa di così soggettivo che è bello che sia così, dato che siamo rapiti da cose così diverse che non esiste una formula o una definizione. 

Come scegli e concepisci i progetti futuri?
Io ho sempre scelto di accettare poche cose ma andare a lavorare dove sto bene e le persone che mi piacciono. La qualità è importante ma non è detto che non faccia una mostra in un posto che non è conosciuto laterale se le persone che mi chiedono di farlo hanno un interesse reale e che non lo fanno solo perché serve un nome tra tanti ma perché conoscono il lavoro e sanno cosa vogliono. L’artista ha bisogno di essere amato e desiderato, avere soprattutto il rispetto di quello che sta facendo. Non è semplice. Progetti futuri ci sono, dopo l’estate e non qui ma all’estero. Ci saranno anche qui in Italia nei prossimo mesi ma adesso, in questo momento storico nel nostro Paese, è tutt’altro che facile. Dovessi rifare oggi mostre che ho fatto solo sei o sette anni fa con certe produzioni, a malincuore ma devo dire che sarebbe molto più difficile.



(pubblicata su ESPOARTE di agosto-settembre 2011)


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