sabato 9 febbraio 2013

MARCELLO MALOBERTI

 
Intervista a MARCELLO MALOBERTI
di Marta Casati



Intervista del 2008.


La tua più recente esperienza espositiva è Tagadà, la mostra ospitata negli spazi della galleria Raffaella Cortese lo scorso settembre/novembre. Trovo però che il termine “mostra” non sia adatto: sei riuscito a creare un globo in divenire, un microcosmo di agenti che tra loro interagivano, nonostante la natura tanto diversa delle proprie concatenazioni. Tagadà è il senso di vortice che conduce dove?
Tagadà è un evento che non ama un palcoscenico teatrale con un unico punto di vista, ma molti punti di vista intrecciati insieme. Diciamo che è più cinematografico, una vertigine di immagini, suoni e luci modifica la percezione della galleria.
La vertigine è una parola-concetto che mi accompagna dal 1992, con l'installazione La vertigine della Signora Emilia. Non prendere una direzione definitiva ma lasciarsi affascinare dal caos e stare in una vertigine percettiva è una sensazione del vivere contemporaneo. Tagadà è uno stato d'animo, è l'energia  allo stato puro... spero!
Ho pensato la mostra non con una forma unica ma sempre in movimento informe, mi affascina pensare Tagadà come il mio rumore di fondo.
Tagadà è il mio modo di pensare discontinuo, è mettere tutti i pensieri sullo stesso piano, tipo blob. È una mostra che potrebbe continuare all'infinito aggiungendo visioni a visioni, cose a cose, performance a performance...

Ho notato che l'elemento circolare sia stato un elemento determinante e ricorrente tra le “presenze” in gioco: la forma delle conchiglie, dei tavolini argentati, dei cerchi avvolgenti nel video, della ruota caleidoscopica in verticale al muro, nell'ampia ragnatela di spilli... è così o mi sbaglio?
Il cerchio è una forma geometrica che mi crea male alla testa, il girare a vuoto, la giostra, l'arte optical... il cerchio contiene ma destabilizza. Il primo lavoro che accoglie a braccia aperte lo spettatore, quando scende dalla pedana, è un acquarello... Tanti tondi colorati presi dalle scatole degli acquarelli per bambini, sono incollati su una fetta di un tronco d'albero che, girando velocemente su se stesso, evoca l'arte optical, ma un optical-povero fatto con pochi mezzi... L'arte optical mi crea la nausea e vomiti improvvisi.
Il groove eccitato e circolare del progetto sonoro di Igor Muroni, ragiona sulla relazione emozionale che la musica crea tra il pubblico e l'artista durante un concerto. La musica di Tagadà è quindi disegnata su una partitura emozionale espressa dall’eccitazione del pubblico. 

Il tuo lavoro mi conduce a pensare alla potenza della situazione, alla forza dell'accadimento qui & ora, del non-senso nel caricare le possibilità di ingombranti aspettative. Come potresti commentare queste mie parole? L'atto performativo è... definibile?
Mi piace pensare la performance come evento-situazione dove ci si cala all'interno. La performance è sprofondare sotto al mare e poi vedere la luce del cielo sopra: mi piace pensare allo spettatore come parte integrante del mio lavoro. La performance è farsi toccare dalla bellezza della vita, e vedere l'istante che si crea sotto gli occhi...
Mi sento lontano dalle azioni dove “io artista faccio e il pubblico guarda” come a teatro; la performance è un linguaggio da criticare, distruggere, scalfire, ridicolizzare e reinventare sempre, un mischiare le carte... La performance è un modo di fare... Anche la fotografia e il disegno possono essere performativi, come per esempio nella mia prima performance: la foto di mia nonna sotto il tavolo...
In realtà la prima performance è stata all'asilo, quando me la sono fatta nei pantaloni durante la recita... Fernando Pessoa pensa all'atto artistico come un attentato... W Fernando!

Credi che il pubblico, in procinto di accogliere il concetto e l'esecuzione di una performance, abbia aspettative maggiori rispetto ad altre forme espressive?
Penso che dalla performance non ti aspetti di più che da altre forme   d'arte, ma l'attesa stessa è un suo elemento fondante. Di solito i miei lavori sono sempre in corso mentre il pubblico entra nel luogo di un  evento... mi piace quando nella vita ti addentri in situazioni che cambiano velocemente l'atmosfera: un cambio improvviso emotivo e mentale.

Se dovessi divenire il concetto di stupore, quali colori e quali immagini useresti?
Lo stupore è la disperata vitalità, come diceva Pier Paolo Pasolini.

Set acrobazie – nel quale mi sono scontrata per la prima volta al Centro di San Colombano al Lambro nel 2006  è riuscito a calamitare la mia attenzione colpendo in pieno il nucleo che gestisce l'emotività. Credo che questo sia il tuo merito più grande: guidare la regia dei tuoi interventi senza scenografie o copioni, concedere che sia il caso a dirigerli con provvidenziale improvvisazione. Ma il Caso esiste?
L'emotività è un aspetto centrale nel mio modo di vivere: in me è fisica, senza mezze misure. L'esperienza di Set Acrobazie a San Colombano è stata molto forte, tante situazioni vivevano contemporaneamente dando corpo ad un paesaggio emotivo diretto e reale... Il caso e l’insolito esistono, ma dentro un leggero ordine, mi piace pensare che la vita sia forma tra le forme che compongono fisicamente il mio lavoro. Nella mostra Acrobazie, curata da Elisa Fulco e Teresa Maranzano, un po’ fuori controllo avevo lavorato con molta forza ed energia sulle immagini felici e la simpatia con i materiali. 

La tua più frequente ossessione, legata o slegata all'arte.
L'ossessione è alla base del mio lavoro. Sono ossessionato alla follia. Il mio lavoro è la mia più grande ossessione. Anche il piacere è una bella ossessione.

Una domanda che nelle interviste e nei dialoghi con gli artisti è invece divenuta per me una sorta di ossessione è chiedere tre aggettivi per descrivere l'arte contemporanea e il sistema che attorno vi ruota. Non posso non chiederti la stessa cosa...
D.E.L.I.R.I.O.

Qualche anticipazione su progetti futuri...
Una mostra a Palermo da Francesco Pantaleone e un’installazione permanente davanti la stazione di Fiorenzuola in Emila Romagna, inaugurata da un grande happening ad alto volume!


Marcello Maloberti è nato nel 1966 a Codogno (Lodi). Vive e lavora tra Milano e Lisbona.

  
(Pubblicato su Espoarte di ottobre-novembre 2008)

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