Intervista a LUCA VITONE
di Marta Casati
Intervisto Luca Vitone nel mio studio di Milano (2008).
Non
posso cominciare questa intervista senza chiederti del tuo recente progetto al
Castello Sforzesco: la sola lettura del titolo, Trallallero, potrebbe suscitare un senso di pungente ironia verso questo enorme
magma definito arte contemporanea. È così, almeno un po’?
Credo
che il titolo possa essere interpretato da ognuno come meglio si crede. Trallallero è in realtà una tipologia di canto tradizionale
popolare della cultura urbana genovese. È un canto a cappella i cui componenti
si chiamano “Canterini”. L’intero gruppo viene chiamato “Squadra” – ognuno con
un nome che di solito è quello del quartiere di provenienza – ed è composto dai
sette ai nove elementi. Il canto è, ovviamente, solo vocale e a quattro voci:
contralto, tenore, basso e voce chitarra. Così si compone Trallallero...
Non
sono canti di lavoro, religiosi o politici: è la tradizione popolare del
passatempo, della spensieratezza, della canzone d’amore, del canto da osteria.
Sono
state invitate le uniche cinque Squadre tuttora esistenti, che per la prima
volta canteranno in contemporanea. Ho portato il loro repertorio all’interno
dei fossati del Castello Sforzesco, occupando i tre lati verso Parco Sempione –
mentre il quarto lato non c’è più, perché ormai è un prato che
arriva giù, lungo le mura. Il pubblico guarda dagli spalti verso il fossato e
ascolta questa musica che fuoriesce dalla terra, proprio come in altri miei
lavori, dove dalla terra esce una sorta di colonna sonora del luogo. Questa
volta l’azione si è svolta intorno al Castello, come fosse un fluido vitale, un
liquido, oppure – nel senso più letterale – dei frutti che la terra ci dona
come fossero il nostro passato.
Anche
in Special Vocalist – progetto del 2005 allo Stadio Meazza di
Milano – il motore trainante era il canto. In questo caso qual era l'esigenza
da colmare, l'obiettivo da raggiungere?
In
ballo c’era un aspetto di sicuro più giocoso, ossia portare un gruppo di musica
popolare folk di nicchia, molto di nicchia, in uno stadio con il tipico
impianto audio degli stadi, proprio come se si trattasse di un gruppo rock.
È
stato il gioco di una serata pensata per il Salone del Mobile, Domus Circular, curata da Stefano Boeri e Andrea Lissoni, dove
c’erano presentazioni di vario tipo, dal concerto musicale alla proiezione in
prima mondiale di un video, dal film all’incontro con il design.
Sempre
a settembre è stata inaugurata un’altra tua mostra a Milano, Le ceneri di Milano da Emi Fontana. Di quali ceneri si tratta?
Sono,
letteralmente, ceneri di Milano. Provengono da un termovalorizzatore,
rappresentano l’uso del nostro quotidiano. Sono le nostre ceneri, quanto viene
definito immondizia trasformato in ceneri. Le letture che si possono trarre
sono molteplici, ciascuno potrà trovare la propria.
Vi
è correlato anche il pensiero di morte?
Potrà
esserci correlata l’idea funeraria nei confronti del nostro dominio
occidentale. Con il nuovo millennio si è aperta la Porta d’Oriente e proprio là
dovremo guardare e rivolgerci. Le influenze – economiche, politiche, culturali – arriveranno da questa direzione. Rientra
all’interno di un mio discorso sull’idea di moderno, che è partito qualche anno fa con i monocromi in
cui utilizzo un antipigmento, un non-pigmento, qualcosa dal quale solitamente
ci si difende, tipo l’agente atmosferico o la polvere e adesso la cenere. Le
ceneri di Milano sono un ulteriore
passaggio di questo pensiero: una sorta di pittura attraverso una non-pittura,
che è anche una considerazione sulla fine di un moderno classico degli anni
’50/’60.
Dunque,
due mostre/progetti in contemporanea ma dal taglio concettuale ben diverso.
Con
Le ceneri di Milano siamo
all’interno di una dimensione più riflessiva anche in relazione al mondo e alla
storia dell’arte, mentre con Trallallero si ha proprio un modo diverso di interpretare il lavoro, in quanto
questo si articola in una sola serata, è un atto performativo che conferma una
ricerca. In entrambi i lavori c’è un rapporto con il luogo: in uno c’è la
dimensione della città, nell’altro i luoghi delle origini. Entrambi fanno parte
di progetti che sto portando avanti negli ultimi anni, come I Cannocchiali che in Italia erano a Frascati, vicino Roma, e a
Pisa.
A
proposito delle tue origini genovesi, che rapporto hai con la tua città? Più o
meno conflittuale?
La
collaborazione con le squadre di Trallalero risale proprio al 2000, quando ho
tenuto una personale al Palazzo delle Esposizioni, che si intitolava con il
termine genovese Stundàiu. Tale progetto metteva in scena il mio rapporto con
Genova che – come spesso accade con la città di origine – è contraddittorio,
tinteggiato da amore e odio, positivo e negativo. In quel caso mi interessava
lavorare sugli stereotipi urbani come quello architettonico, proprio come nella
personale che si inaugura il 22 novembre a Linz, in cui verrà costruita una
“creuza” (originariamente una strada extra urbana che dai monti porta al mare)
posta all’entrata del museo. Per accedere all’interno, si dovrà attraversare
proprio tale scultura.
Anche
pensando a Panorama, ti
chiedo se esiste una differenza tra il concetto di “spazio” e quello di
“luogo”. Che rapporto li trattiene?
Il
luogo è una porzione circoscritta dello spazio. Lo spazio invece ha un quid temporale,
ha un rapporto con il tempo, ma a volte è anche un sinonimo.
Osservando
invece l’immagine dell’installazione ospitata lo scorso giugno al Mart di
Rovereto, Gli occhi di Segantini, trovo il pretesto per chiederti del tuo rapporto con la storia
dell’arte. Senti di frequente o di rado la necessità di scartabellare il
passato, osservare e sperderti nella consultazione dei maestri del passato per
instaurare un confronto/dialogo con loro?
Un
rapporto con il passato, lavorando all’interno del sistema dell’arte, c’è
sempre: si guarda comunque cosa è avvenuto. Ci sono dei momenti o delle
personalità di cui ci si innamora, anche solo temporaneamente. A volte su una
di queste personalità nasce l’idea di fare un progetto. Gli occhi Segantini nasce proprio dalla curiosità che avevo nei
confronti del suo fare pittura ma anche del suo essere uomo. È stata la prima
volta che ho fatto un lavoro di quelle dimensioni e con quel coinvolgimento,
dedicandolo interamente ad un artista del passato. Non so dire se succederà di
nuovo.
La
mia domanda classica: tre aggettivi per descrivere l'arte contemporanea.
Stimolante,
coinvolgente, stressante.
Che
rapporto hai con la fotografia e con il video?
Sono
due mezzi che non mi appartengono del tutto. La fotografia mi appartiene come
mezzo per esprimere degli “schizzi visivi”, “appunti visivi”. Raramente la
utilizzo come unico strumento per esprimere un pensiero. A volte vi ricorro
perché mi interessa un’immagine e solitamente non è una fotografia che scatto
io: è una foto che trovo, che mi serve e utilizzo. Sono quindi “appunti visivi”, serie di immagini
solitamente di piccolo formato. Sono anche un luogo espositivo in quanto
momento dell’esposizione, ma sono sempre correlati ad altri oggetti. Per il
video è lo stesso: qualche volta l’ho utilizzato per dei lavori, per esprimere
l’idea tramite il video, altre volte invece mi è servito per documentare
qualcosa: proprio come per Vocalist allo Stadio Meazza, evento che dura un momento, per di più evento
sonoro; pensare di documentarlo soltanto con una foto non sarebbe stato di
certo soddisfacente.
Solo
qualche piccola anticipazione su qualche progetto futuro: dove e quando?
Tra
i progetti che posso anticipare, a
parte qualche collettiva, c’è una personale a fine novembre all’O.K. Centrum di
Linz. È la seconda parte di un’antologica che era iniziata l’anno scorso al
Casino Luxembourg. Trasformandosi poi ulteriormente, sarà ospitata nella
primavera del 2008 alla GAMeC di Bergamo.
Luca Vitone è nato a Genova nel 1964. Vive e lavora a Milano.
(Pubblicata su Espoarte di ottobre-novembre 2008)
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