sabato 9 febbraio 2013

LUCA VITONE


Intervista a LUCA VITONE
di Marta Casati



Intervisto Luca Vitone nel mio studio di Milano (2008).


 
Non posso cominciare questa intervista senza chiederti del tuo recente progetto al Castello Sforzesco: la sola lettura del titolo, Trallallero, potrebbe suscitare un senso di pungente ironia verso questo enorme magma definito arte contemporanea. È così, almeno un po’?  
Credo che il titolo possa essere interpretato da ognuno come meglio si crede. Trallallero è in realtà una tipologia di canto tradizionale popolare della cultura urbana genovese. È un canto a cappella i cui componenti si chiamano “Canterini”. L’intero gruppo viene chiamato “Squadra” – ognuno con un nome che di solito è quello del quartiere di provenienza – ed è composto dai sette ai nove elementi. Il canto è, ovviamente, solo vocale e a quattro voci: contralto, tenore, basso e voce chitarra. Così si compone Trallallero...
Non sono canti di lavoro, religiosi o politici: è la tradizione popolare del passatempo, della spensieratezza, della canzone d’amore, del canto da osteria.
Sono state invitate le uniche cinque Squadre tuttora esistenti, che per la prima volta canteranno in contemporanea. Ho portato il loro repertorio all’interno dei fossati del Castello Sforzesco, occupando i tre lati verso Parco Sempione – mentreuadre  il quarto lato non c’è più, perché ormai è un prato che arriva giù, lungo le mura. Il pubblico guarda dagli spalti verso il fossato e ascolta questa musica che fuoriesce dalla terra, proprio come in altri miei lavori, dove dalla terra esce una sorta di colonna sonora del luogo. Questa volta l’azione si è svolta intorno al Castello, come fosse un fluido vitale, un liquido, oppure – nel senso più letterale – dei frutti che la terra ci dona come fossero il nostro passato.

Anche in Special Vocalist – progetto del 2005 allo Stadio Meazza di Milano – il motore trainante era il canto. In questo caso qual era l'esigenza da colmare, l'obiettivo da raggiungere?
In ballo c’era un aspetto di sicuro più giocoso, ossia portare un gruppo di musica popolare folk di nicchia, molto di nicchia, in uno stadio con il tipico impianto audio degli stadi, proprio come se si trattasse di un gruppo rock.
È stato il gioco di una serata pensata per il Salone del Mobile, Domus Circular, curata da Stefano Boeri e Andrea Lissoni, dove c’erano presentazioni di vario tipo, dal concerto musicale alla proiezione in prima mondiale di un video, dal film all’incontro con il design.  
 
Sempre a settembre è stata inaugurata un’altra tua mostra a Milano, Le ceneri di Milano da Emi Fontana. Di quali ceneri si tratta?
Sono, letteralmente, ceneri di Milano. Provengono da un termovalorizzatore, rappresentano l’uso del nostro quotidiano. Sono le nostre ceneri, quanto viene definito immondizia trasformato in ceneri. Le letture che si possono trarre sono molteplici, ciascuno potrà trovare la propria. 

Vi è correlato anche il pensiero di morte?
Potrà esserci correlata l’idea funeraria nei confronti del nostro dominio occidentale. Con il nuovo millennio si è aperta la Porta d’Oriente e proprio là dovremo guardare e rivolgerci. Le influenze economiche, politiche, culturali arriveranno da questa direzione. Rientra all’interno di un mio discorso sull’idea di moderno, che è partito qualche anno fa con i monocromi in cui utilizzo un antipigmento, un non-pigmento, qualcosa dal quale solitamente ci si difende, tipo l’agente atmosferico o la polvere e adesso la cenere. Le ceneri di Milano sono un ulteriore passaggio di questo pensiero: una sorta di pittura attraverso una non-pittura, che è anche una considerazione sulla fine di un moderno classico degli anni ’50/’60. 

Dunque, due mostre/progetti in contemporanea ma dal taglio concettuale ben diverso.
Con Le ceneri di Milano siamo all’interno di una dimensione più riflessiva anche in relazione al mondo e alla storia dell’arte, mentre con Trallallero si ha proprio un modo diverso di interpretare il lavoro, in quanto questo si articola in una sola serata, è un atto performativo che conferma una ricerca. In entrambi i lavori c’è un rapporto con il luogo: in uno c’è la dimensione della città, nell’altro i luoghi delle origini. Entrambi fanno parte di progetti che sto portando avanti negli ultimi anni, come I Cannocchiali che in Italia erano a Frascati, vicino Roma, e a Pisa.  
 
A proposito delle tue origini genovesi, che rapporto hai con la tua città? Più o meno conflittuale?
La collaborazione con le squadre di Trallalero risale proprio al 2000, quando ho tenuto una personale al Palazzo delle Esposizioni, che si intitolava con il termine genovese Stundàiu. Tale progetto metteva in scena il mio rapporto con Genova che – come spesso accade con la città di origine – è contraddittorio, tinteggiato da amore e odio, positivo e negativo. In quel caso mi interessava lavorare sugli stereotipi urbani come quello architettonico, proprio come nella personale che si inaugura il 22 novembre a Linz, in cui verrà costruita una “creuza” (originariamente una strada extra urbana che dai monti porta al mare) posta all’entrata del museo. Per accedere all’interno, si dovrà attraversare proprio tale scultura. 

Anche pensando a Panorama, ti chiedo se esiste una differenza tra il concetto di “spazio” e quello di “luogo”. Che rapporto li trattiene?
Il luogo è una porzione circoscritta dello spazio. Lo spazio invece ha un quid temporale, ha un rapporto con il tempo, ma a volte è anche un sinonimo. 

Osservando invece l’immagine dell’installazione ospitata lo scorso giugno al Mart di Rovereto, Gli occhi di Segantini, trovo il pretesto per chiederti del tuo rapporto con la storia dell’arte. Senti di frequente o di rado la necessità di scartabellare il passato, osservare e sperderti nella consultazione dei maestri del passato per instaurare un confronto/dialogo con loro?
Un rapporto con il passato, lavorando all’interno del sistema dell’arte, c’è sempre: si guarda comunque cosa è avvenuto. Ci sono dei momenti o delle personalità di cui ci si innamora, anche solo temporaneamente. A volte su una di queste personalità nasce l’idea di fare un progetto. Gli occhi Segantini nasce proprio dalla curiosità che avevo nei confronti del suo fare pittura ma anche del suo essere uomo. È stata la prima volta che ho fatto un lavoro di quelle dimensioni e con quel coinvolgimento, dedicandolo interamente ad un artista del passato. Non so dire se succederà di nuovo.  
 
La mia domanda classica: tre aggettivi per descrivere l'arte contemporanea.
Stimolante, coinvolgente, stressante.

Che rapporto hai con la fotografia e con il video?
Sono due mezzi che non mi appartengono del tutto. La fotografia mi appartiene come mezzo per esprimere degli “schizzi visivi”, “appunti visivi”. Raramente la utilizzo come unico strumento per esprimere un pensiero. A volte vi ricorro perché mi interessa un’immagine e solitamente non è una fotografia che scatto io: è una foto che trovo, che mi serve e utilizzo. Sono quindi  “appunti visivi”, serie di immagini solitamente di piccolo formato. Sono anche un luogo espositivo in quanto momento dell’esposizione, ma sono sempre correlati ad altri oggetti. Per il video è lo stesso: qualche volta l’ho utilizzato per dei lavori, per esprimere l’idea tramite il video, altre volte invece mi è servito per documentare qualcosa: proprio come per Vocalist allo Stadio Meazza, evento che dura un momento, per di più evento sonoro; pensare di documentarlo soltanto con una foto non sarebbe stato di certo soddisfacente. 

Solo qualche piccola anticipazione su qualche progetto futuro: dove e quando?
Tra i progetti che posso anticipare, a parte qualche collettiva, c’è una personale a fine novembre all’O.K. Centrum di Linz. È la seconda parte di un’antologica che era iniziata l’anno scorso al Casino Luxembourg. Trasformandosi poi ulteriormente, sarà ospitata nella primavera del 2008 alla GAMeC di Bergamo.    

Luca Vitone è nato a Genova nel 1964. Vive e lavora a Milano. 



(Pubblicata su Espoarte di ottobre-novembre 2008)

 

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