Intervista a CHARLES AVERY
di Marta Casati
2011 - Poliedrico e conteso da un universo straripante di stimoli e
suggestioni anche se controllate e disciplinate da regole ben precise. Abbiamo
intervistato Charles Avery, artista scozzese ma ormai londinese di adozione,
per capire meglio la sua ricerca, il ruolo del disegno nel suo fare arte e
molto altro…
In primis vorrei che mi parlassi della tua prima mostra personale in uno spazio pubblico italiano, ospitata, da novembre 2010 a gennaio 2011, a Firenze da EX3 Centro per l’Arte Contemporanea. Cosa pensi dell’Italia e del suo sistema artistico? Hai incontrato difficoltà per realizzare il tuo progetto o solo piacevoli sorprese?
È stato tutto piuttosto semplice. Sergio Tossi, Arabella Natalini
e Lorenzo Giusti, che gestiscono lo spazio, erano coinvolti in prima persona
nell’allestimento, e io so bene quant’è difficile occuparsi di questi aspetti,
in particolar modo, forse, in Italia; energia positiva si sprigionava
dall’intero team, poiché ognuno era molto coinvolto a livello personale nel
successo dell’iniziativa. E, fisicamente parlando, si trattava per me di uno
spazio molto interessante con cui confrontarmi. Non so se descriverei il mondo
dell’arte italiano come un sistema, ma il pubblico italiano sembra accogliere
apertamente le mie opere.
Il progetto in questione si chiama Onomatopoeia e comprende numerose opere su
carta, sculture, video installazioni ma anche libri e film che per te hanno un
significato importante, fonti di preziosa ispirazione. Perché questo titolo? Da
dove nasce l’idea della mostra e perché rendere “pubblici” i tuoi affezionati
libri e film?
Mi piaceva il suono della parola. Mi ricorda Costantinopoli. The
port of Ononomatopoeia (Il porto di Onomatopoeia) rappresenta il passaggio tra due
continenti e due convinzioni diverse. Nel mio sistema si colloca tra il
Soggettivo e l’Oggettivo. Penso ci sia dell’ironia nell’usare la parola stessa
come onomatopea.
Dei tuoi disegni mi colpisce la visionarietà del segno ma al
contempo la radicata concretezza, senza mai eccessi, senza sfociare in voli
pindarici senza soluzione. Cosa rappresenta per te il disegno? Il fine ultimo o
la prima tappa dalla quale partire?
Ebbene, non esiste un fine ultimo di questo progetto. Penso di
usare il disegno per aggirare il problema della finitezza. Proprio per il modo
in cui li realizzo, non potrei mai finire i miei disegni. A un certo punto
smetto semplicemente di lavorarci, spesso quando arriva il momento della
mostra. Ciò conferisce ai disegni un senso di estensione, non solo oltre il
supporto piatto dell’immagine, ma anche in termini di “temporalità”. Non c’è un
inizio o una fine, solo una continuazione. Come artista, percepisco il dubbio
come sentimento ricorrente, perciò conviene tenere presente alcune massime
secondo cui condurre la propria vita professionale. Una delle mie è: “finire”
una cosa equivale ad ucciderla. Si tratta anche di prendere posizione contro
l’idea di “Capolavoro”. Si passa dall’essere uno studente di arte in un
ambiente critico alla situazione di artista professionista, in cui viene
esaltata la partecipazione all’ambiente delle gallerie, dove le “opere” sono in
qualche maniera presentate come perfette, o come corrispondenti all’idea di
“perfezione” dell’artista, a quanto meno come una soluzione ad una questione.
Tutto questo è assurdo. Per questo mi piace lasciare nei miei disegni tutte le
bozze e i tratti parzialmente cancellati, in modo che non sembrino compiaciuti
di sé, o desiderosi di essere un’“opera” o rappresentare una sorta di
soluzione.
La scultura invece che ruolo riveste per Charles Avery? È parte
speculare del disegno o i due mezzi artistici si pongono su piani del tutto
lontani tra di loro, senza alcuna reciproca comunicazione?
Non mi considero uno scultore. Realizzo oggetti. Il mio amico
artista Richard Woods una volta mi ha detto: «È importante realizzare sculture
perché c’è bisogno di qualcosa da collocare al centro della stanza». Questa è
senza dubbio una delle sue funzioni. La scultura serve precisamente ad opporre
una controparte materialista ai disegni e a rappresentare l’estensione dello
spazio. Oggetti diversi ricoprono ruoli diversi, naturalmente, ma non ho mai
individuato alcuna distinzione logica tra forme di espressione. Scrivo,
disegno, realizzo oggetti: il tutto per illustrare l’Isola. Gli oggetti tendono
ad essere molto “materiali”, “cose in sé”, molto oggettivi! I disegni, invece,
hanno una componente implicita, un’estensione narrativa, e quella qualità
revisionista di cui parlavo.
Il tuo fare arte soddisfa un qualche tuo bisogno specifico o,
piuttosto, è finalizzato a soddisfare esigenze dello spettatore che osserva una
delle tue opere?
È il mio lavoro, ma non ho bisogno di farlo, né lo spettatore ha
bisogno in modo specifico delle mie opere, sebbene si abbia l’impressione che
l’”artisticità” esisterà sempre.
Esiste un progetto che non hai ancora realizzato ma che ti
danza nella mente da mesi o addirittura anni?
The Islanders è il lavoro della mia vita e non sarà mai realizzato nel senso in
cui penso tu intenda. Possiedo un appezzamento sull’isola di Mull, circondato
dall’acqua su tre lati; è il luogo da cui provengo e credo che un giorno mi
piacerebbe erigere statue imponenti su questa penisola, che rappresentino il
Pantheon dell’Isola immaginaria. Ma ora è soltanto un sogno ad occhi aperti.
Di solito chiedo agli artisti tre aggettivi per descrivere
l’arte contemporanea e il perché della loro scelta...
Consapevole, indulgente con se stessa e (inspiegabilmente)
attraente.
Ci puoi parlare della tua prossima mostra?
La prima occasione è al British Art Show 7 in febbraio, che aprirà
presso la Hayward Gallery, a Londra. In Italia, invece, terrò una mostra in
aprile dalla Galleria S.A.L.E.S. a
Roma.
Charles Avery è nato nel 1973 a Born Oban (Scozia). Vive e
lavora a Londra.
(Pubblicata su ESPOARTE di FEBBRAIO-MARZO 2011)
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