sabato 9 febbraio 2013

CHARLES AVERY


Intervista a CHARLES AVERY
di Marta Casati 



2011 - Poliedrico e conteso da un universo straripante di stimoli e suggestioni anche se controllate e disciplinate da regole ben precise. Abbiamo intervistato Charles Avery, artista scozzese ma ormai londinese di adozione, per capire meglio la sua ricerca, il ruolo del disegno nel suo fare arte e molto altro…



In primis vorrei che mi parlassi della tua prima mostra personale in uno spazio pubblico italiano, ospitata, da novembre 2010 a gennaio 2011, a Firenze da EX3 Centro per l’Arte Contemporanea. Cosa pensi dell’Italia e del suo sistema artistico? Hai incontrato difficoltà per realizzare il tuo progetto o solo piacevoli sorprese?
È stato tutto piuttosto semplice. Sergio Tossi, Arabella Natalini e Lorenzo Giusti, che gestiscono lo spazio, erano coinvolti in prima persona nell’allestimento, e io so bene quant’è difficile occuparsi di questi aspetti, in particolar modo, forse, in Italia; energia positiva si sprigionava dall’intero team, poiché ognuno era molto coinvolto a livello personale nel successo dell’iniziativa. E, fisicamente parlando, si trattava per me di uno spazio molto interessante con cui confrontarmi. Non so se descriverei il mondo dell’arte italiano come un sistema, ma il pubblico italiano sembra accogliere apertamente le mie opere.

Il progetto in questione si chiama Onomatopoeia e comprende numerose opere su carta, sculture, video installazioni ma anche libri e film che per te hanno un significato importante, fonti di preziosa ispirazione. Perché questo titolo? Da dove nasce l’idea della mostra e perché rendere “pubblici” i tuoi affezionati libri e film?
Mi piaceva il suono della parola. Mi ricorda Costantinopoli. The port of Ononomatopoeia (Il porto di Onomatopoeia) rappresenta il passaggio tra due continenti e due convinzioni diverse. Nel mio sistema si colloca tra il Soggettivo e l’Oggettivo. Penso ci sia dell’ironia nell’usare la parola stessa come onomatopea.

Dei tuoi disegni mi colpisce la visionarietà del segno ma al contempo la radicata concretezza, senza mai eccessi, senza sfociare in voli pindarici senza soluzione. Cosa rappresenta per te il disegno? Il fine ultimo o la prima tappa dalla quale partire?
Ebbene, non esiste un fine ultimo di questo progetto. Penso di usare il disegno per aggirare il problema della finitezza. Proprio per il modo in cui li realizzo, non potrei mai finire i miei disegni. A un certo punto smetto semplicemente di lavorarci, spesso quando arriva il momento della mostra. Ciò conferisce ai disegni un senso di estensione, non solo oltre il supporto piatto dell’immagine, ma anche in termini di “temporalità”. Non c’è un inizio o una fine, solo una continuazione. Come artista, percepisco il dubbio come sentimento ricorrente, perciò conviene tenere presente alcune massime secondo cui condurre la propria vita professionale. Una delle mie è: “finire” una cosa equivale ad ucciderla. Si tratta anche di prendere posizione contro l’idea di “Capolavoro”. Si passa dall’essere uno studente di arte in un ambiente critico alla situazione di artista professionista, in cui viene esaltata la partecipazione all’ambiente delle gallerie, dove le “opere” sono in qualche maniera presentate come perfette, o come corrispondenti all’idea di “perfezione” dell’artista, a quanto meno come una soluzione ad una questione. Tutto questo è assurdo. Per questo mi piace lasciare nei miei disegni tutte le bozze e i tratti parzialmente cancellati, in modo che non sembrino compiaciuti di sé, o desiderosi di essere un’“opera” o rappresentare una sorta di soluzione.

La scultura invece che ruolo riveste per Charles Avery? È parte speculare del disegno o i due mezzi artistici si pongono su piani del tutto lontani tra di loro, senza alcuna reciproca comunicazione?
Non mi considero uno scultore. Realizzo oggetti. Il mio amico artista Richard Woods una volta mi ha detto: «È importante realizzare sculture perché c’è bisogno di qualcosa da collocare al centro della stanza». Questa è senza dubbio una delle sue funzioni. La scultura serve precisamente ad opporre una controparte materialista ai disegni e a rappresentare l’estensione dello spazio. Oggetti diversi ricoprono ruoli diversi, naturalmente, ma non ho mai individuato alcuna distinzione logica tra forme di espressione. Scrivo, disegno, realizzo oggetti: il tutto per illustrare l’Isola. Gli oggetti tendono ad essere molto “materiali”, “cose in sé”, molto oggettivi! I disegni, invece, hanno una componente implicita, un’estensione narrativa, e quella qualità revisionista di cui parlavo.

Il tuo fare arte soddisfa un qualche tuo bisogno specifico o, piuttosto, è finalizzato a soddisfare esigenze dello spettatore che osserva una delle tue opere?
È il mio lavoro, ma non ho bisogno di farlo, né lo spettatore ha bisogno in modo specifico delle mie opere, sebbene si abbia l’impressione che l’”artisticità” esisterà sempre.

Esiste un progetto che non hai ancora realizzato ma che ti danza nella mente da mesi o addirittura anni?
The Islanders è il lavoro della mia vita e non sarà mai realizzato nel senso in cui penso tu intenda. Possiedo un appezzamento sull’isola di Mull, circondato dall’acqua su tre lati; è il luogo da cui provengo e credo che un giorno mi piacerebbe erigere statue imponenti su questa penisola, che rappresentino il Pantheon dell’Isola immaginaria. Ma ora è soltanto un sogno ad occhi aperti.

Di solito chiedo agli artisti tre aggettivi per descrivere l’arte contemporanea e il perché della loro scelta...
Consapevole, indulgente con se stessa e (inspiegabilmente) attraente.

Ci puoi parlare della tua prossima mostra?
La prima occasione è al British Art Show 7 in febbraio, che aprirà presso la Hayward Gallery, a Londra. In Italia, invece, terrò una mostra in aprile dalla Galleria S.A.L.E.S. a Roma.


Charles Avery è nato nel 1973 a Born Oban (Scozia). Vive e lavora a Londra.


(Pubblicata su ESPOARTE di FEBBRAIO-MARZO 2011)



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