lunedì 11 febbraio 2013

SUBODH GUPTA

 
Intervista a SUBODH GUPTA
di Marta Casati



Raccontare la complessa situazione socio-economica del suo Paese, l’India, con la semplice e facile riconoscibilità delle sue strumentazioni casalinghe più comuni: questo, ma non solo, è uno dei più grandi meriti della ricerca artistica di Subodh Gupta.
La trasformazione che la società indiana, rurale e metropolitana sta subendo non permette che le sue componenti più antiche vadano perdute. Per avvalorare la potenza di tale fenomeno, Gupta utilizza utensili da cucina come lettere di un alfabeto pronto a narrare dinamiche, in bilico tra passato e futuro, tradizione e innovazione. Incontrare e intervistare Gupta non è stato privo di sincera emozione.



Descrivendo una delle opere, l’opera principale in mostra alla Galleria ContinuaI, hai avuto modo di sottolineare l’importanza dello spazio della cucina nella vita quotidiana indiana e hai affermato che :”Quando ero bambino, vedevo questa stanza quasi come un luogo di preghiera, una sorta di tempio. Per me  uno spazio carico di spiritualità. Ma, sicuramente, è anche una ambiente della vita quotidiana: l’80% degli indiani si servono degli utensili da cucina in acciaio inossidabile. È un materiale molto paradossale: attira la luce, risplende e tuttavia rimane profondamente associato alla cultura popolare”. Nel mio recente viaggio nel tuo Paese ho avuto modo di constatare come questo sia più che reale, come gran parte della vita di ogni giorno si svolge qui e come non sia solo una “stanza”. L’impiego dell’acciaio in molte tue opere vuole essere il simbolo di questa situazione così importante per il nucleo familiare indiano?
L’acciaio in India è il materiale quotidiano per eccellenza. Per tal emotivo esso assume una simbologia tanto forte nel mio lavoro, densa di molteplici significati. Quando inizi la tua giornata e fai colazione usando la scodella o qualsiasi altro utensile è come se un nuovo ciclo prendesse inizio, una nascita o una morte si compissero. Per questo ritengo che l’acciaio abbia più simbologie e che non possa essergli attribuito un solo significato.

C’è un sentimento specifico che vorresti che un qualsiasi spettatore si portasse via con te, fino a casa e oltre, dopo aver visto questa o un’altra tua mostra?
Non potrei rispondere a questa domanda affermando che esiste un solo significato o un solo sentimento. Non voglio imporre niente e non vorrei che qualcuno traesse dai miei lavori solo quello che io voglio. Per prima cosa, quando si fa arte occorre comprendere che l’arte stessa è trasformazione e cambiamento. Lo stesso accade per me. Il materiale che utilizzo è come se subisse un cambiamento, per questo per l’osservatore non è necessario comprendere ciò che si vede, ma ciò che sente.
Il messaggio che porta a casa, dopo aver visto una mostra, è diverso da persona a persona. Lo stesso accade quando vai a teatro o a vedere un film: il significante assorbito è talmente individuale da variare in maniera netta da persona a persona.

Ti ho voluto rivolgere questa domanda perché mi è capitato di incontrare artisti che avessero questa esigenza e nei tuoi confronti è stata come una sorta di provocazione… 
Infatti non vale nel mio caso. Credo che in un’opera sussistano insieme molti significati, solo così l’arte potrà definirsi tale.
Ogni mente è individuale e solo a livello individuale può registrare cosa vede.

In Italia e nel resto d’Europa l’attenzione verso l’arte indiana è sempre più frequente ed attuale, sia a livello di galleria private che di spazi pubblici. Speri che sia un interesse reale (come lo spero anche io vista l’alta qualità delle ricerche di alcune di queste proposte) o sia una moda del momento destinata a non restare?
Posso dirti che si tratta di un atteggiamento molto vicino alla moda ma, nello stesso tempo, c’è qualcosa di molto più radicato. La mia esperienza lo dimostra dato che ho preso parte alla mostra collettiva del 2001 sempre alla Galleria Continua. In questo caso non si è trattata solo di moda ma di un lavoro che già era cominciato da molti anni.

Spesso, per realizzare le tue opere, sei solito scegliere grandi dimensioni che occupano e impiegano un ampio spazio. La dimensione è così importante da assumere una valenza concettuale?
Generalmente, per realizzare i miei lavori, utilizzo la grande come la piccola dimensione. Prima di approdare a pieno nell’universo dell’arte contemporanea ho lavorato nell’ambito del teatro e per questo adoro le atmosfere drammatiche che poi intendo ricreare sulla scienza. Spesso la grande dimensione mi permette di connettermi al drama feeling e, specialmente nello spazio/platea offerto dalla struttura della Galleria Continua, questo senso di luci ed atmosfere è più che mai possibile.

E, infatti, densa di luci teatrale e racchiusa in un’atmosfera dai tratti drammatici è anche l’opera collocata in una sorta di caverna negli spazi sotterranei della galleria, realizzata con moltissime giare in ottone e corde. Il suo titolo è Bhandarghar, cosa significa?
In India in ogni casa esiste una store-room, una specie di stanza-dispensa dove è possibile conservare e custodire il cibo. Il nome di questo luogo è bhandarghar, appunto. Questa stanza è come se fosse il tesoro della casa, un nido di alimenti e sostanze preziose, cibo, acqua, utensili e molto altro. Tutto è posto con ordine e attenzione, proprio come se fosse un negozio molto prestigioso da tenere con cura. Questo è un luogo dalla valenza spirituale e simbolica molto forte. Quando ho appreso e visto per la prima volta l’esistenza di questa nicchia nella pietra, nei pressi del sottosuolo della galleria, ho voluto ricreare proprio questa sensazione: restare abbagliati dalla scoperta e dal bagliore di un tesoro.

Un attimo di nazionalismo: cosa ha più l’India che nessun altro Paese potrà mai avere?
In realtà voglio dirti cosa ho trovato qui in Italia di indiano che solo qui riesco a trovare: le tegole in terracotta.

Le tegole in terracotta? Pensare che io sono rimasta colpita dalla diffusione, ma anche resistenza, dei tetti realizzati con le foglie di palmaII, non ne ho visti così spesso in terracotta!
Infatti, dipende dalla zona in cui sei stata. Io provengo dal Bihar e lì è molto frequente vedere questo tipo di copertura per le abitazioni. Quando venni per la prima volta in Italia questa particolarità e comunanza con il mio Paese mi colpì all’istante.

Sei un artista che utilizza video, scultura e pittura con duttile facilità. Mi piacerebbe sapere cosa ottieni da una tecnica e non dall’altra.
In un primo momento mi esprimevo soltanto con il mezzo pittorico. Ho cominciato a creare con la scultura solo nel 1997. La pittura ha segnato il mio inizio artistico mentre la scultura raccoglie il mio volermi espandere fino ad accogliere gli insegnamenti e il fascino offertomi dal teatro. Come per un attore è basilare – per la sua professionalità ed evoluzione – saper interpretare più ruoli, ognuno diverso dall’altro, lo stesso accade nella mia arte. Io sono un artista e ogni medium non è importante in quanto tale ma perché espressione del mio voler fare arte. Facendo questo lavoro posso esprimermi, in ugual modo, facendo un disegno, realizzando un video o componendo una scultura: esprimo parte della mia indagine. Il mezzo artistico che si sceglie è importante ma nello stesso tempo perde valore se rivestito di una importanza fine a se stessa.

Solitamente chiedo agli artisti o agli addetti ai lavori di darmi tre aggettivi per descrivere l’arte contemporanea. Lo stesso chiedo anche a te.
Per me l’arte è quella dimensione dalla quale ciascuno dovrebbe trarre il maggior piacere possibile. Non potrei scegliere tre aggettivi per descriverla, preferisco regalarti un’immagine che possa rappresentarla al meglio.
La immagino come un bicchiere d’acqua dove, la sostanza liquida all’interno, è visibile grazie alla trasparenza del vetro esterno.
Quando tu lasci cadere all’interno dell’acqua una goccia di colore accade qualcosa: l’acqua inizia a colorarsi e la sua natura iniziale man mano cambia e si trasforma in qualcosa di nuovo.
Lo stesso accade nell’arte. la novità sopraggiunge e inizia a dilatarsi. A ciascuno è lasciato la possibilità di osservare e indagare tale espansione.

Subodh Gupta è nato nel 1964 a Bihar, in Khagaul (India).    
Vive e lavra a Delhi.



(pubblicata su ESPOARTE di giugno-luglio 2008)


I La mostra alla quale mi riferisco è There is always cinema, la personale ospitata alla Galleria Continua durante l’opening della quale ho avuto modo di incontrare e intervistare Gupta.
II Basta leggere come li descrive Norah Richards: “Alcuni pensano che i tetti in paglia siano primitivi e fuori moda. Forse hanno ragione ma non esiste tetto più grazioso alla vista e più comodo per chi vi abita sotto: fresco in estate, caldo in inverno, sempre in silenzio, anche nella tormenta”. (in Country Life – Diario Indiano, Stampa Alternativa, 1970, pag 145).  

sabato 9 febbraio 2013

ANDRAS CALAMANDREI


Intervista ad ANDRAS CALAMANDREI
di Marta Casati



Intervista realizzata in occasione della personale di Andras Calamandrei Magazzino 1B di Prato si intitola Sometimes I wish I could swallow up all the existent words (2011).
Immagini che in principio sembrano appartenerci quasi di facile lettura: niente di più errato. L’universo di Andras Calamandrei, viaggiatore instancabile e indagatore del quotidiano, è un andare oltre la scorza dall'apparire da sempre nutrito da una pungente e sottile denuncia politica e sociale, un esercizio continuo alimentato da memorie, scatti, scritti emergenti dal suo universo,  complesso e profondo. Calamandrei lavora con la fotografia perché fotografo preofessionista, non per questo non esige di mettersi alla prova nei suoi dipinti ricamati, in sculture e installazioni. Lo intervisto in occasione della sua ultima personale per scoprire che…



La tua ultima personale ospitata da Magazzino 1B di Prato si intitola Sometimes I wish I could swallow up all the existent words. Cosa ci cela dietro?
E’ una frase che mi sono ripetuto spesso in forme diverse da quando ho cominciato a scattare in maniera ossessiva per il progetto Hermes.  Era per me un nominare il mondo, appropriarmene e tentare di porre una “giusta” distanza tra me e il reale. E’ per il mio interesse per le lingue; madrelingua tedesca, 'padrelingua' italiana, emigrato in Argentina e quindi spagnolo, dover usare l’inglese. Un mix cacofonico di suoni, significati, usati spesso insieme in singole frasi. Da questo, a volte un’estrema stanchezza mentale e desiderio opposto di riuscire a trovare un solo Nome, una sola Parola per definire il tutto; nella vita come nell’arte.

La tua raccolta fotografica chiamata Hermes è coltivata dal 1999, di cui si nutre anche la mostra di Prato. Come la descriveresti?
E’ un diario prodotto con una pocket camera analogica sempre in tasca. E’ la mia visione estetica, etica e politica del mondo e del reale. Per 4 anni ho scattato e conservato i negativi e i provini in una scatola quasi senza guardarli. Dal 2002 ho cominciato a considerarlo un progetto fotografico, e solo da lì -continuando a scattare ovunque fossi- ho cominciato a rielaborare l’archivio. Dal 2009 uso anche una pocket digitale con cui produco video con la stessa processualità ed estetica. E’ un archivio potenzialmente infinito al quale vengono continuamente aggiunte nuove immagini venendo cosi indotti ad un interminabile processo rivisitazione dell’intero corpus.

Quali sono state le maggiori difficoltà nel realizzare questo progetto? Come le hai superate?
La quantità delle immagini selezionate (circa 600) e la decisione di non catalogarle cronologicamente. Ho a che fare con un magma informe di negativi (immagini) e di molte decine di Giga (video) che in parte hanno una vita loro. Un archivio di odori tempi spazi che si è stratificato e trasformato innumerevoli volte. Questa caoticità riesce comunque a mantenere sempre un legame estetico e contenutistico; produce delle visioni contrastanti e atemporali ma narrativamente coerenti. Le difficoltà le ho superate grazie alla sensibilità, l’occhio esterno e i 'limiti' posti dalla curatrice della mostra, Daria Filardo. Oltre a delle stampe, Hermes è presente con una videoproiezione composta da circa 420 immagini prese dall’archivio, video e un soundtrack prodotto da Tuia Cherici.

Tu nasci come fotografo ma i tuoi lavori non si limitano alla fotografia. Cosa ti permettono di esplorare gli altri media che invece, la tua adorata fotografia, non ti concede?
Non so di preciso; come dici, ho un background molto fotografico e una modalità di produzione che attinge dalla lentezza e utilizza strategie di stratificazione che ho imparato dalla scuola di fotografia. Ho comunque sempre desiderato manipolare e trasformare altri tipi di materiali. In questi ultimi sette anni a Buenos Aires, oltre ad incontrare numerose persone stimolanti e generose, a vivere situazioni intense di una metropoli sudamericana con le sue infinite sfaccettature idiosincratiche, ho avuto un lavoro interessante con un carico ridotto di ore. Questo surplus di tempo, energie e risorse, insieme alle innumerevoli “occasioni“ esperite in questa città in cui non avevo radici di appartenenza, mi ha dato il coraggio e la possibilità di sviluppare progetti con altri media.

L’altra parte integrante della tua ricerca è l’oggetto ricamato. Quando e perché nasce questa tua attitudine, nell’immaginario comune erroneamente collegato alla sfera femminile?
Dieci anni fa cercai di sviluppare un progetto su identità, osmosi e l’estrema difficoltà di veicolare le profonde sensazioni che viviamo nella vita. Erano stampe su differenti carte da parati. A Buenos Aires, tra arte e moda ho conosciuto il ricamo. L’intramare, l’antichità di questa tecnica e l’aspetto tecnologico (sono prodotti o con macchine manuali da ricamo o da macchine elettroniche) mi ha affascinato tantissimo. Ho cominciato così quattro anni fa con un progetto sull' “Estetica del terrore”  e un altro sulla memoria; trasformare frammenti di reale in ricami è per me una sintesi contundente tra forma e contenuto.

Per abbeverare la tua attività artistica a quale fonte ti attingi?
Architettura, Urbanismo, Sociologia, News e pubblicità quando sono a casa di altri o quando sono in un caffè, cinema. Da queste fonti ricavo i messaggi e i contenuti che vengono prodotti nelle società contemporanee, rifletto sulla loro circolazione, elaboro il mio punto di vista. 

Prossimi progetti espositivi? Di vita, anche quello di tornare a Buenos Aires dove ormai vivi da anni?
A Novembre, a New York, per Producing Censorchip del Premio Celeste, espongo un ricamo. Una tela di un altro lavoro il cui tema sono le paure sociali, l’incentivazione di queste attraverso i media, le forme di potere e segregazione nelle città (che siano Favelas o Gated Communities). A Gennaio raggiungo di nuovo la mia compagna a Buenos Aires, e lì continuerò a ricamare tessuti.


ANDRAS CALAMANDREI è nato nel 1975 a Zofingen (Svizzera), vive e lavora a Buenos Aires (Argentina)



(Pubblicata su www.espoarte.net dal 26 ottobre 2011)


MARZIA MIGLIORA


Intervista a MARZIA MIGLIORA
di Marta Casati



Intervisto Marzia Migliora nelle sale espositive di EX3 a Firenze prima dell'inaugurazione della mostra RADA (9 giugno 2011).



Il tuo progetto ideato per la sala centrale di EX3, Rada, prende ispirazione spunto da una bandiera il cui segno grafico, nel Codice Internazionale dei segnali marittimi, significa "sospendete quello che state facendo". Cosa, in questo momento, nel tuo immaginario è più urgente interrompere immediatamente?
Sicuramente l’idea di sospendere quello che stiamo/sto facendo indica quel attimo prima di porsi una domanda, quindi il fermarsi per potersela porre. Questo è un qualcosa di fondamentale per un artista così come per ogni persona in generale. Quindi l’idea è quella di offrire un paesaggio e un invito per quest’azione, che non è una pausa spenta ma una pausa attiva in quanto quello che si vede è una pausa di riflessione, una pausa di attenzione a quello che si sta per fare, a quello che si sta per vedere. E’ un invito aperto che poi ognuno  lo rivolge a sé o in maniera più allargata, come ad esempio, a questo Paese, allargandosi a macchia d’olio dal piccolo al grande. L’idea nasce da una bandiera X-Ray che nel codice internazionale dei segnali marini significa “sospendete quello che state facendo”. 

Quando ti sei avvicinata la prima volta a questo linguaggio?
L’innamoramento per tutto il linguaggio nautico l’ho sfiorato la prima volta nel 2008 con un progetto che si chiama My No Man’s Land che è stato esposto la prima volta alla Art Agents Gallery di  Amburgo e in questa mostra ve ne è una piccola parte rappresentata dai tre salvagente fati di sapone. La secchezza di questo linguaggio mi ha affascinato fin da subito. Il mio lavoro spesso parte da testi, da qualcosa che riguarda la lingua e il linguaggio e questo nautico è un linguaggio non fraintendibile nel senso che l’esposizione di questa bandiera significa esclusivamente quello. Non esiste l’interpretazione o il fraintendimento. La mia idea era quella di realizzare la bandiera in scala all’interno di questo spazio andando a costruire un pontile blu che è, in tutto e per tutto, “pontile” ossia attracco sicuro per le barche ma anche punto di partenza per una barca che va verso qualcosa che non conosce, come il mare e i tutti i suoi umori. Le porzioni di bianco della materia sono scarti di marmo che vengono da Carrara, sessanta tonnellate di marmo in lastre e pezzi di varie dimensioni. Quello che mi piaceva di questo materiale è che è la sottrazione per arrivare alla parte voluta, alla parte buona e preziosa. Qui dunque c’è la parte che non è più importante, che non è niente. La scelta di questo materiale è stata data anche da Firenze, dai suoi esempi storici di scultura e anche perché le cave sono tutte  a Carrara. Mi piaceva poi l’idea di mettere il pubblico su un basamento che guarda dall’alto verso il basso una scultura rotta che si sta ricomponendo. Ci si può perdere nel vedere tutti i dettagli degli scarti, che riportano ai segni di un passaggio di una lavorazione umana. Allo stesso tempo questa distesa di marmo diventa ghiacciaio, diventa mare, diventa maceria. Mi piace l’idea di prendere del tempo per guardare questo scarto. E’ come prendere del tempo per guardare qualcosa che abbiamo tralasciato o al quale non avevamo dato importanza. E’ come recuperare una radice, recuperare una storia, recuperare un pezzo di trascorso. Questo mi interessa molto.

Con quali novità tecniche e/o concettuali ti ha portato ad avere a che fare questo progetto?
Con questo progetto ci  troviamo di fronte a molte novità, non per ultima quella di poter affrontare uno spazio di queste dimensioni. Da principio avevo realizzato un progetto immaginando varie situazioni con opere di piccole dimensioni dicendo alla curatrice Arabella Natalini che se per caso fosse sopraggiunto un’ idea che reputavo interessante, in grado di coinvolgere l’intero spazio, l’avrei abbracciata sconvolgendo l’idea iniziale. E così è stato! Il progetto è nato, come spesso accade per i miei lavori, con uno schizzo di pochi centimetri sopra un quaderno dove c’era disegnato un rettangolo con in mezzo una croce blu. Parlando con la curatrice e scorrendo le pagine di questo quaderno, lei ha fermato l’attenzione sull’unico che aveva un colore chiedendo: “ E questo cosa è ?!?!” . E io: “No, niente, è una cosa complicata, non si può fare…”.  Poi ho iniziato a raccontarle il progetto e lei per prima è stata molto coraggiosa, se n’è innamorata subito e dal giorno siamo partiti con i preventivi, la ricerca dei materiali e tutto il resto. Senz’altro questo progetto sfiora l’architettura. Le dimensioni di questo spazio, che sono più di 650 mq in una sala unica rettangolare, sono l’occasione per un artista che non capitano tutti i giorni così come non capita tutti i giorni di accettare questo tipo di spazio. Io ho accettato questo spazio, l’ho accettato nel bene e nel male, ho l’ho accettato nei pregi e nei difetti. La decisione da subito è stata quella di non accettare pareti false, cartongessi, cambiare l’illuminazione, anche se ci sono dei miei interventi di luce nello spazio. L’intento è stato quello di tenerlo così e di cucire qualcosa dentro lo spazio con un lavoro in tutto e per tutto site-specific. Ci sono materiali che non ho mai toccato prima come il marmo, il legno (come in questo caso legno blu), i tubi innocenti. Il neon invece è un materiale che ho già usato ma in questo caso è neon opalino, quello usato nelle insegne pubblicitarie che non ho mai usato prima. 

Dunque sarai stata affascinata anche dalla precisa asciuttezza linguaggio morse, molto usato nell’universo nautico.
Si, infatti  il segnale che emettono i neon è la traduzione del segnale morse. E’ un po’ come un faro, dove in realtà la parte solida di questo faro è fatta dalle persone che sono al centro del pontile. Con il segno “linea-punto-punto-linea”  (siamo all’interno di un linguaggio non verbale) utilizzo questa tecnica che è tipica delle insegne pubblicitarie, una sollecitazione continua ma anche silenziosa e non troppo invadente per lo spettatore. Lo stesso segno è posto all’esterno dello spazio espositivo ad indicare che lì ha ancora più valore il “sospendete quello che state facendo”. L’arte ha bisogno di attenzione per vivere. Questo spazio ha bisogno delle attenzioni degli artisti, ha bisogno delle attenzioni del quartiere per vivere in un momento di difficoltà come questo in Italia, dove non ci sono soldi, dove non ci vengono date le possibilità. C’è dunque bisogno di fermarsi e guardare quello che fanno gli artisti. Questa sospensione può essere dunque anche un messaggio politico. Non ci sono soldi per fare libri, per fare arte. Poi ovvio che gli artisti italiani siano come artisti del Terzo Mondo ma perché quali possibilità ci sono date? Quale possibilità ho io, tolto questo caso, di portare un progetto al pieno della sua forma, così come l’ho pensato? Devi continuamente tagliare e arrivare a qualcosa che è vicino ma non è quello. Io tendo a non farle le cose in questo modo. Piuttosto preferisco non farle, per rispetto del mio lavoro. Tutto ciò è molto triste, ecco dunque che dico: “Beccatevi un po’ di queste macerie!”. 

Immagino anche le difficoltà con le quali ti sarai scontrata a lavorare con dimensioni tanto impegnative.
La cosa strana di lavorare in uno spazio così è quel margine di perdita di controllo perché, a un certo punto, sembra che spazio stia per inghiottirti perché non riesci a stare attenta a quindici operai che stanno facendo quindici cose diverse! E misurarsi con questo margine – e per me rappresenta una forma di ossessione la perdita di controllo – è stato molto interessante. La cosa meravigliosa di lavorare qua è stato vedere quanto l’intera operazione sia stato sostenuta dalle persone che vi hanno lavorato, dagli operai che si trattenevano fino alle otto o alle nove della sera perché vedeva tutti gli altri lavorare con passione agli stagisti con il badile in mano, che si muovevano senza neanche sapere bene cosa stessimo facendo. E poi la curatrice che non si è risparmiata nessuna di queste mansioni faticose o io stessa in prima linea, che non è neanche una mia attitudine realizzare i lavori  con le mani perché un lavoro più d’ idea, di testa. Qui è stato diverso ma sicuramente un’ esperienza bella.  

Adesso finalmente potrai gustarti il lavoro finito. Il risultato è davvero unico.
Io ormai da questo giorno dico che non sono più obiettiva, che non mi sorprendo più ad entrare dalla porta principale. Io non riesco in questo momento a mettermi nella testa di chi possa vedere il mio progetto. Lo vorrei vedere ancora con gli occhi della sorpresa ma ne sono, in questo momento, ne sono troppo inglobata. Alla fine è uno sforzo paradossale pensare, dopo tanto che ci lavori, poterlo vedere ancora con gli occhi della meraviglia, in ogni caso sarei curiosa di poterlo fare. Da poco ho fatto un lavoro al Museo del Novecento di Milano, una audio-guida che le persone possono prendere gratuitamente al guardaroba del Museo così che il lavoro diventa un servizio per il pubblico del Museo. Anche in questo caso di nuovo, com’è accaduto al Muso del Novecento, c’è una attenzione particolare per il pubblico perché questo paesaggio è da vivere, è dedicato alla persona che vi cammina sopra.

Ogni tuo lavoro è un insieme di input trasmessi dal suo complessivo e finale messaggio quasi dopo una sedimentazione semantica. Se dovessi tu stessa fare la curatrice testuale di te stessa, come e in che forma definiresti la tua ricerca?
Definire la mia ricerca è difficile. La frase che dico spesso sul mio lavoro è che la matrice comune a tutti i lavori è un tentativo di parlare con le persone delle persone. Mi interessa il lato umano da tutti i suoi punti di vista, dalla  fragilità, all’amore, dal rapporto di coppia e la relazione al rapporto con lo spazio inteso come un orientamento della persona nel circostante, il dove si trova. Tutte queste sono tematiche che ricorrono nel tempo nelle mie opere. Quello che sta intorno alle persone è quanto più mi attrae ed è anche un tentativo di parlare a un numero grande di persone. Ecco che quindi è un non fare una biografia – penso sia molto poco interessante – anche se ovvio il punto di partenza sono io, da me partono le parole proprio come quelle di uno scrittore. Il punto di vista, sì è il mio ma il tentativo è quello di abbracciare gli altri con tematiche che possono sentire vicine.

Come al solito chiedo di descrivere l’arte contemporanea a ogni artista che intervisto usando solo tre aggettivi: tu quali sceglieresti e perché?
Più che darti tre aggettivi posso dirti quello che penso riguardo l’arte contemporanea. Io ho la speranza che possa almeno stimolare, che possa essere in grado di farmi pensare, farmi fermare a riflettere ed emozionarmi. Quando sopraggiunge l’emozione è bellissimo, straordinario, peccato che sia così raro. Mi accontento anche della parte d’immaginazione, di pensiero. L’importante è che il l’opera che sto osservando sia in grado di generare una mia risposta. È qualcosa di così soggettivo che è bello che sia così, dato che siamo rapiti da cose così diverse che non esiste una formula o una definizione. 

Come scegli e concepisci i progetti futuri?
Io ho sempre scelto di accettare poche cose ma andare a lavorare dove sto bene e le persone che mi piacciono. La qualità è importante ma non è detto che non faccia una mostra in un posto che non è conosciuto laterale se le persone che mi chiedono di farlo hanno un interesse reale e che non lo fanno solo perché serve un nome tra tanti ma perché conoscono il lavoro e sanno cosa vogliono. L’artista ha bisogno di essere amato e desiderato, avere soprattutto il rispetto di quello che sta facendo. Non è semplice. Progetti futuri ci sono, dopo l’estate e non qui ma all’estero. Ci saranno anche qui in Italia nei prossimo mesi ma adesso, in questo momento storico nel nostro Paese, è tutt’altro che facile. Dovessi rifare oggi mostre che ho fatto solo sei o sette anni fa con certe produzioni, a malincuore ma devo dire che sarebbe molto più difficile.



(pubblicata su ESPOARTE di agosto-settembre 2011)


MOATAZ NASR


Intervista a MOATAZ NASR
di Marta Casati



Intervisto Moataz Nasr prima della sua personale  “The other side of the Mirror” alla Galleria Continua di San Gimignano nel marzo 2011. 
Moataz Nasr, artista egiziano che ha fatto della sua appartenenza geografica pretesto per andare oltre i confini politici e religiosi, racconta del suo momento artistico, del suo proiettarsi verso il dialogo tra culture e storie.



Cosa significa “L’altra parte dello specchio”? Cosa possiamo trovare dietro lo specchio?
Nello specchio non vediamo altro che la realtà. Parliamo spesso di quello che stiamo osservando  dicendo “quella persona è così e cosi…”. Ma poi, quando cominciamo ad indagare bene, c’è sempre qualcosa di diverso da quello che ci aspettavamo. Questa opera non può rispecchiare qualcosa di diverso da quello siamo. “The other side of the mirror” dimostra che quando una persona è di fronte allo specchio è se stessa e solo così è svelata la chiave della realtà.

Sei soddisfatto del tuo progetto o generalmente, durante l’inaugurazione delle tue mostre, pensi: “Ok, tutto è perfetto ma la prossima volta voglio fare ancora meglio…”?
Sono fiero di quello che ho fatto in questo momento della mia vita perché in questo preciso momento è il meglio che ho potuto dare, di solito ne sono pienamente soddisfatto. Se poi a distanza di tempo riguardo l’opera posso dire anche che non mi piace, ma questo può accadere solo a posteriori: nel periodo in cui è stata creata era perfetta.

Tu concepisci la mostra come un viaggio filosofico e spirituale, come una canzone corale ma per Moataz NAsr quale è la canzone corale più urgente?
L’amore e la compassione sono per me la canzone più urgente perché se riesco ad amare me stesso e gli altri riesco anche a crescere e a sviluppare in me le potenzialità che possiedo. Ci può essere una crescita solo se si è immersi nell’amore, non solo amore verso l’altro o una donna ma l’amore per la bellezza. Quando la mattina ti alzi e sorridi a qualcuno per strada dicendo “buongiorno”, anche questo è amore. L’amore è la passione per le piccole e semplici cose. Non occorre a pensare a chissà cosa di grande. Questa è la cosa di cui oggi sentiamo più la mancanza.

Ritieni che l’arte sia uno strumento per conoscere se stessi?
Assolutamente. Ritengo che non esista altro strumento migliore dell’arte per conoscere se stessi. È un mezzo che ci arricchisce nell’anima.

Il filosofo e poeta Sufi di nome Ibn Arabi è fonte d’ inspirazione per molti tuoi lavori in questa mostra. Quale è la sua più significativa rivelazione per te? E quale il punto di contatto tra la cultura araba e quella cattolica che lui è riuscito a trovare?
Ibn Arabi è cresciuto in Andalusia anche se proveniente da una famiglia araba e questo elemento ha favorito il suo essere a contatto con il mondo cristiano, influendo molto sulla prima parte della sua vita. Quanto più mi interessa del suo pensiero è di come, andando indietro nei secoli dei secoli, la religione di tutto il mondo è l’amore, anche la mia. L’amore è la parola che muove ogni cosa, è il comune denominatore tra tutte le religioni.

Nel comunicato stampa è possibile leggere che i tuoi arazzi sono simbolo di compassione e bellezza. Cosa ti senti di aggiungere a riguardo? Quale’è per te il senso di compassione e di bellezza?
La compassione e la bellezza sono quanto mi hanno inspirato in questo momento della mia vita. L’importante è che siano sentimenti autentici altrimenti falsano ogni processo. Le persone lo vedono e avvertono se hai questa bellezza dentro, se tu riesci a manifestarla in ogni cosa che fai. Io tento di fare questo con la mia arte. 

Cosa provi in questo momento se volgi la tua mente al tuo paese*?
Il mio cuore è con il mio Paese anche se in questo momento sono impegnato nella mostra e nella mia arte. E’ sorprendente di come il mio popolo stia lottando con ogni forza possibile per la democrazia. Chi è morto in questa rivoluzione è morto anche per noi e dobbiamo esserne riconoscenti. Ieri è stato incredibile quando ho appreso la notizia! Milioni di persone in piedi in piazza, prima quindicimila poi dopo qualche giorno sono diventati quattro milioni. E’ semplicemente incredibile. Quando le persone decidono di volere qualcosa, niente le può fermare.

La domanda che ogni volta rivolgo agli artisti è la seguente: dimmi tre aggettivi che descrivono l’arte contemporanea e perché.
Non c’è descrizione per l’arte. Non si può definire. L’arte è quello che senti. E’ un qualcosa di molto sensibile e di molto personale. Quando hai gli strumenti, la comprensione e un buon materiale per descrivere qualcosa e per codificarlo, questo è quello che vale, questo è quello che si definisce arte.

Puoi darmi qualche anticipazione riguardo i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando ad altre tre mostre ma quattro mostre in un anno sono troppe per me, massimo una o due sono l’ideale. Sicuramente lavorerò sull’Egitto, quanto mi preoccupa di più è quanto sta accadendo lì. Chiunque stia guardando in questo momento le vicende in Egitto è normale che sia preoccupato, ogni persona, anche te: questa è la mia scommessa. E’ come se l’Egitto sia divenuto simbolo universale di cambiamento. Ciò che sta accadendo lì potrebbe capitare in qualsiasi altra parte del mondo, sono sicuro che auguro io all’Egitto è quello che ciascun altro uomo augurerebbe al suo Paese.


Moataz Nasr nasce nel 1961 ad Alessandria d’Egitto, vive e lavora al Cairo.



* Il suo paese è l’Egitto. Il giorno prima dell’intervista Moubarak si è dimesso dopo 40 giorni di guerra civile.




(pubblicata sul numero di aprle-maggio 2011 di ESPOARTE)

CHARLES AVERY


Intervista a CHARLES AVERY
di Marta Casati 



2011 - Poliedrico e conteso da un universo straripante di stimoli e suggestioni anche se controllate e disciplinate da regole ben precise. Abbiamo intervistato Charles Avery, artista scozzese ma ormai londinese di adozione, per capire meglio la sua ricerca, il ruolo del disegno nel suo fare arte e molto altro…



In primis vorrei che mi parlassi della tua prima mostra personale in uno spazio pubblico italiano, ospitata, da novembre 2010 a gennaio 2011, a Firenze da EX3 Centro per l’Arte Contemporanea. Cosa pensi dell’Italia e del suo sistema artistico? Hai incontrato difficoltà per realizzare il tuo progetto o solo piacevoli sorprese?
È stato tutto piuttosto semplice. Sergio Tossi, Arabella Natalini e Lorenzo Giusti, che gestiscono lo spazio, erano coinvolti in prima persona nell’allestimento, e io so bene quant’è difficile occuparsi di questi aspetti, in particolar modo, forse, in Italia; energia positiva si sprigionava dall’intero team, poiché ognuno era molto coinvolto a livello personale nel successo dell’iniziativa. E, fisicamente parlando, si trattava per me di uno spazio molto interessante con cui confrontarmi. Non so se descriverei il mondo dell’arte italiano come un sistema, ma il pubblico italiano sembra accogliere apertamente le mie opere.

Il progetto in questione si chiama Onomatopoeia e comprende numerose opere su carta, sculture, video installazioni ma anche libri e film che per te hanno un significato importante, fonti di preziosa ispirazione. Perché questo titolo? Da dove nasce l’idea della mostra e perché rendere “pubblici” i tuoi affezionati libri e film?
Mi piaceva il suono della parola. Mi ricorda Costantinopoli. The port of Ononomatopoeia (Il porto di Onomatopoeia) rappresenta il passaggio tra due continenti e due convinzioni diverse. Nel mio sistema si colloca tra il Soggettivo e l’Oggettivo. Penso ci sia dell’ironia nell’usare la parola stessa come onomatopea.

Dei tuoi disegni mi colpisce la visionarietà del segno ma al contempo la radicata concretezza, senza mai eccessi, senza sfociare in voli pindarici senza soluzione. Cosa rappresenta per te il disegno? Il fine ultimo o la prima tappa dalla quale partire?
Ebbene, non esiste un fine ultimo di questo progetto. Penso di usare il disegno per aggirare il problema della finitezza. Proprio per il modo in cui li realizzo, non potrei mai finire i miei disegni. A un certo punto smetto semplicemente di lavorarci, spesso quando arriva il momento della mostra. Ciò conferisce ai disegni un senso di estensione, non solo oltre il supporto piatto dell’immagine, ma anche in termini di “temporalità”. Non c’è un inizio o una fine, solo una continuazione. Come artista, percepisco il dubbio come sentimento ricorrente, perciò conviene tenere presente alcune massime secondo cui condurre la propria vita professionale. Una delle mie è: “finire” una cosa equivale ad ucciderla. Si tratta anche di prendere posizione contro l’idea di “Capolavoro”. Si passa dall’essere uno studente di arte in un ambiente critico alla situazione di artista professionista, in cui viene esaltata la partecipazione all’ambiente delle gallerie, dove le “opere” sono in qualche maniera presentate come perfette, o come corrispondenti all’idea di “perfezione” dell’artista, a quanto meno come una soluzione ad una questione. Tutto questo è assurdo. Per questo mi piace lasciare nei miei disegni tutte le bozze e i tratti parzialmente cancellati, in modo che non sembrino compiaciuti di sé, o desiderosi di essere un’“opera” o rappresentare una sorta di soluzione.

La scultura invece che ruolo riveste per Charles Avery? È parte speculare del disegno o i due mezzi artistici si pongono su piani del tutto lontani tra di loro, senza alcuna reciproca comunicazione?
Non mi considero uno scultore. Realizzo oggetti. Il mio amico artista Richard Woods una volta mi ha detto: «È importante realizzare sculture perché c’è bisogno di qualcosa da collocare al centro della stanza». Questa è senza dubbio una delle sue funzioni. La scultura serve precisamente ad opporre una controparte materialista ai disegni e a rappresentare l’estensione dello spazio. Oggetti diversi ricoprono ruoli diversi, naturalmente, ma non ho mai individuato alcuna distinzione logica tra forme di espressione. Scrivo, disegno, realizzo oggetti: il tutto per illustrare l’Isola. Gli oggetti tendono ad essere molto “materiali”, “cose in sé”, molto oggettivi! I disegni, invece, hanno una componente implicita, un’estensione narrativa, e quella qualità revisionista di cui parlavo.

Il tuo fare arte soddisfa un qualche tuo bisogno specifico o, piuttosto, è finalizzato a soddisfare esigenze dello spettatore che osserva una delle tue opere?
È il mio lavoro, ma non ho bisogno di farlo, né lo spettatore ha bisogno in modo specifico delle mie opere, sebbene si abbia l’impressione che l’”artisticità” esisterà sempre.

Esiste un progetto che non hai ancora realizzato ma che ti danza nella mente da mesi o addirittura anni?
The Islanders è il lavoro della mia vita e non sarà mai realizzato nel senso in cui penso tu intenda. Possiedo un appezzamento sull’isola di Mull, circondato dall’acqua su tre lati; è il luogo da cui provengo e credo che un giorno mi piacerebbe erigere statue imponenti su questa penisola, che rappresentino il Pantheon dell’Isola immaginaria. Ma ora è soltanto un sogno ad occhi aperti.

Di solito chiedo agli artisti tre aggettivi per descrivere l’arte contemporanea e il perché della loro scelta...
Consapevole, indulgente con se stessa e (inspiegabilmente) attraente.

Ci puoi parlare della tua prossima mostra?
La prima occasione è al British Art Show 7 in febbraio, che aprirà presso la Hayward Gallery, a Londra. In Italia, invece, terrò una mostra in aprile dalla Galleria S.A.L.E.S. a Roma.


Charles Avery è nato nel 1973 a Born Oban (Scozia). Vive e lavora a Londra.


(Pubblicata su ESPOARTE di FEBBRAIO-MARZO 2011)



LORENZA BOISI

  
Intervista a LORENZA BOISI
di Marta Casati



Intervista realizzata per il catalogo della mostra NIGHT VISION da METRO QUADRO (RIVOLI), Gennaio-Febbraio 2010
Alcune pitture sono eventualità, altre eventi. Con Lorenza Boisi si gravita in quest’ultima sfera d’azione. “Azione” perché il suo procedere pittorico avanza sicuro del suo saper guardare oltre, saper vedere anche nel buio, come lei stessa ci spiega. Un artista è una costellazione di sfaccettature, diramazioni, incontri, certezze come anche dubbi e innumerevoli ripensamenti: l’essere coinvolto dalla materia sia totale & totalizzante è il quid risolutivo che ne determina la condizione. Tale definizione è purtroppo tra le più abusate e violentate proprio tra soggetti che non meritano tale appellativo. Di fronte a un dipinto di Lorenza Boisi possiamo essere certi di non adoperare termini impropri definendola artista e, nello specifico, pittore perché non potrebbe non essere altrimenti. La galassia di esperienze che la contiene ha bisogno di coordinate sempre più espandibili per trattenere slanci di pensiero e di gesto, coordinati e pur sempre all’arte per l’ennesima sorpresa.
Le ho chiesto di parlare in prima persona del suo lavoro per scoprirne aspetti illuminanti.


Innanzitutto sono curiosa di sapere il perché del titolo che personalmente hai scelto per questa mostra: NIGHT VISION.
Night Vision... la “visione notturna”... un'espressione poetica che è portatrice di senso sia fisiologico che tecnologico... per me un riferimento importante e concettualmente denso per stratificazione di significato e senso, per riferimenti culturali e personalissimi, per un modo di concepire e di conoscere il reale, esplorando dimensioni altre dall'esperienza ordinaria attivando sensi e sensibilità quiescenti.
La prima volta che mi imbattei in questa espressione avevo circa 14 difficoltosi anni, come per tutti, il titolo di una canzone amata (Night Vision , Susanne Vega, Solitude Standing 1987) dal testo ermetico ma suggestivo...
Un contenuto che si dischiuse, come per caso o per predestinazione, solo molti anni dopo, il referente della vicenda del Kind von Europa*, la sua straordinaria, triste, meravigliosa, breve esistenza; la sua potenzialità altra, i suoi sensi e la sua “naturalità” selvatica nel vedere il mondo, vicino agli artisti brut, ma ancora più alieno e misterioso. Con il suo cavallino di legno e l'abilità di vedere nel buio, che si trasduce poi in capacità di guardare “dentro”, di vedere oltre i fatti ovviamente assunti, per leggere profondamente la vera essenza compiuta dell'esperienza umana.
Night Vision è pure la definizione tecnica che denomina ogni implemento ottico alla scarsa abilità dell'essere umano a distinguere nel buio... a discernere pure il bene dal male.
In assenza del bellissimo Tapetum Lucidum, l'essere umano è  debilitato, impotente.
Spegnete la luce, sarete sprofondati nell'incertezza, muovendovi a tastoni, affidati a quattro sensi scarsamente sviluppati... forse presi da un'ansia ancestrale e presentissima.
Night Vision, è nel mio mondo, una facoltà di guardare nel buio fisico e in quello della coscienza, nel rimosso e nel perturbante.
La selezione delle opere in mostra non segue un impianto organico in nuce, non deriva da un progetto iniziale strutturato e programmatico. E' un ensemble orchestrato di emersioni dal buio, in senso stringente ed ampliato. Come fotografie cieche, ma “veggenti” come fantasmi sprovveduti, colti nel loro muoversi silenziosi...
Io “vedo” nel buio... vi lascio guardare con me.

La tua pittura ha un tessuto materico coeso che poggia solido su una struttura architettonica sicura e ben articolata- Nello stesso tempo la narrazione fluisce liquida e sicura del suo andamento. Tale risultato è dato da un procedere calcolatore che stabilisci a priori, programmandoti di volta in volta i passaggi che dovrai apportare sulla tela, o piuttosto è frutto di un andamento dai tratti liberatori, istintivi, privi di un’analitica programmazione?
Ti rispondo richiamando una tua felice espressione, vivo la pittura come “esperienza”.
Nel mio lavoro non mi impegno a calibrare un sistema protocollare, un piano regolatore generale; ogni lavoro è in sé esperita esperienza. In un certo modo, il mio sistema, se questo esiste, sta nel piacere, nel piacere anche vessatorio ricercato nel ripetersi di un'esperienza. In questo “bisogno espletato” si ritrova un metodo, inscritto nelle sue stesse qualità tangibili ed estetiche.
Negli anni d'atelier, la dinamica della “ricerca del piacere” si è resa meno incerta, con la famigliarità e la pratica, questo iniziale vibrato cinestetico/sinestetico si è progressivamente chiarito strutturando, seppur fisiologicamente, il proprio andamento e la propria ritmica.
Ho imparato a trovare referenti comuni per esprimere il mio sentire di Studio. Credo che la vitalità, il coinvolgimento, il senso di egoistica intimità, ma pure, il tedio e l'inibizione dell'esperienza onanistica (e non del travaglio) siano in sé buoni significanti esterni che possano rendere efficacemente noti il divenire e la con-formazione di un lavoro artistico.

Nei tuoi dipinti ci sono soggetti che ricorrono spesso, più volte tornano ad animare le tele - basta ricordare i paesaggi innevati con i rami secchi, i nastri colorati, le folte chiome castane solo per citarne qualcuno. Che legame s’intrattiene tra loro (con quale significante/significato?) E come le tue immagini si avvicinano all’astrazione, come ne sono gestite?
La mia pittura ha conosciuto la definizione fluida di un abbecedario di segni spontanei, potremmo dire un'interna economia linguistica.
Il gesto pittorico, dapprima incredulo della sua stessa volontarietà, si sedimenta  per reiterazione, diventando estensione delle intenzioni del pittore in una progressiva esclusione no-frills che sintetizzi, al suo limite, tutta la sensibilità esplosiva dell' artista espressionista quale io sono.
A sua volta, il gesto, si determina in segno, facendosi costruttore di simboli/soggetti che nel mio lavoro ed egualmente, in quello di molti artisti, è un paradigma complesso, organico, talvolta organizzato, spesso subito. Ho costruito quasi inconsciamente un universo di luoghi e personaggi, un universo di accadimenti e di stasi. Questo “spazio” sta' virando verso la propria astrazione, la propria decostruzione formale, tendendo, sempre più intenzionato, verso un'espansione astratta
Nell'onesta quotidianità artistica, la teoria e la pratica dei vasi comunicanti è una realtà fattuale.
Se non siamo Tutto... possiamo essere Tanto. Tanto tutto insieme e contestualmente. Per questa ragione ci imponiamo delle scelte selettive e spesso si procede per esclusione. Io, come nella vita, ho smesso di resistere al divenire. Nella mia pittura, quadro dopo quadro, dopo quadro... dopo quadro conosco e accetto un riversamento di contenuti e di incidenze  plastiche che “concuociono” per poi dissociarsi nuovamente, fino alla condensazione di specificità e categorie.
Ho imparato ad apprezzare l'incidente, la lacuna e la perdita di controllo. Questi fantasmi del formalista, sono certamente i migliori amici e i maggiori elementi di tentazione per l'artista, essi traslano la priorità, dal soggetto, all'astrazione, al media come  proprio oggetto.

Pur essendo la pittura il media con il quale ti esprimi in maggior parte, non mancano tue espressioni scultoree composte da materiali diversi. Che rapporto hai con la scultura?
Sono un pittore. Sono anche un pittore scultore.
Il mio modo di dipingere considera le tre dimensioni atmosfericamente, nel mio approccio con il volume provo a rendere tangibile questa atmosfera. Dunque la scultura non illustra la pittura, o vice versa, esse si intridono l'una dell'altra nelle atmosfere che suggeriscono, nelle profondità tridimensionali rese senza l'ausilio della quadratura prospettica.
La scultura è un forte richiamo per gli artisti espressionisti, lo è storicamente, lo è storicamente in modo molto felice.
La pratica di queste “discipline” si coniuga in un reciproco riversamento e traduzione di intenti. Come nella mia pittura si trovano e si cercano riflessioni sul media e sulla sua tradizione, pure nella mia scultura, per quanto difficoltoso, si debbono leggere considerazioni sui valori plastici e sulla tradizione di questa pratica, l'uso di materiali effimeri o inconsueti, unito a quello di materie prime tradizionali, è da ricondursi allo slancio di una libertà virtualmente illimitata e non ad un interesse per un'impropria dichiarazione di un-monumentalità.
L'effimero non è tale laddove esista interesse per la sua conservazione... ed io vorrei che la mia scultura potesse sopravvivermi...

Nella pittura invece chi sono i tuoi referenti? Che relazione hai con le espressioni della pittura contemporanea?
Il mio referente, in senso stretto è la pittura nella sua storicità. La pittura nel suo essere “Pittura”; in questo comprendo soprattutto la distinzione delle sue “categorie” e la diacronia delle sue progressioni.
Amo molto gli artisti che si sono trovati a latere del loro tempo. Interpreti di una vicenda storica personalissima e, solo incidentalmente, intrecciata alla loro contemporaneità. Mi interessano i cosiddetti Outsider Artists,  per la loro dedizione e la loro naturale eccentricità, per essere veri artisti visitatori, venuti e rimasti nel mondo, rifugiati in una bolla di assoluta alterità.
Posso dire, forse, che il presente di tutti... non mi interessa.
I referenti influenzali che certamente condivido con molti dei miei colleghi, sono tra gli altri Munch, tutto l'Espressionismo ed il post Espressionismo tedeschi, Guston,; mi interessa la tradizione del Memento Mori, delle Vanitas, ma pure la pittura naïf e la pittura popolare devozionale, l'ex Voto e le invenzioni pseudo artistiche da giardino, la pittura medianica.
Sono curiosa di molto, se non di tutto trasversalmente, effettivamente snob e flâneuse.
Per quanto riguardi i miei colleghi, un po' come tutti, rimpiango le atmosfere della “Sala Rossa”. La fruizione delle opere da monitor retroilluminato, fa male, malissimo alla pittura... Tra i miei contemporanei mi interessano e mi ispirano soprattutto la pittura nord americana, il  New Naïf, la pittura di estrazione mitteleuropea e nordica, ho amato molto la ricerca pittorica inglese, ma la trovo ormai asfittica e declinata verso un'estetizzazione piuttosto fallace. Non mi interessa alcuna forma di virtuosismo gratificante, lo sguardo a soggetti extra artistici, la mutuazione di immagini mediatiche, non mi interessano né denuncia, né pop... detesto l'uso strumentale della disciplina subordinato ad una causalità concettuale.
Voglio guardare solo opere ad personam, per quanto oggi possano ancora manifestarsi.
Sono una decisa fautrice del ritorno alla soggettività. Mi interessano solo opere non verbalizzabili. Non posso accettare alcuna manifestazione artistica che sia efficacemente traducibile  in parola. Voglio una pittura, un'arte contemporanea, che non si possa dire... che debba essere esperita direttamente; che ci renda impropri nel tentativo di trasmetterla con mezzi articolati e consueti. Vorrei che questa ci facesse sentire inetti, inabili nel conato corrotto di una impossibile spiegazione.

Qual’è il “maggiore e più grave” fraintendimento che più spesso la tua pittura deve subire? Hai la possibilità di spiegarlo, definirlo, dargli un nome nonché fare chiarezza.
La pittura è vittima incapace di un terribile fraintendimento culturale.
In Italia, ho trovato una diffidenza, una sufficienza, un disprezzo e un'incomprensione verso la pittura, sconosciuti in ogni altra parte del mondo... Per ragioni di storia recente e di un impraticabile penchant alla pedante omologazione, la critica e la curatela italiane hanno evacuato un media nella sua interezza... la pigrizia e l'insicurezza degli operatori artistici italiani non ha mai smesso di penalizzare la pratica della pittura e i suoi interpreti, perpetrando uno sfinimento progressivo delle sue ragioni di esistenza in vita; tanto da aver compresso gli artisti pittori sopravvissuti dentro a cubicoli angusti o a classificazioni abusive e traviate.
Ma un pittore, un vero artista pittore, non può far altro che essere un pittore artista. La mascheratura, non regge e se imposta da interessi altrui, le sue ragioni suonano fesse anche se proclamante e sostenute da parole..parole..parole.
E allora  ...che fare? Aspettare... senza morire...se possibile... la pittura vive...

Una tua riflessione sul periodo storico-artistico che stiamo vivendo: come ti inserisci nelle polemiche della nostra contemporaneità?
Alcuni individui crescono, alcuni... invecchiano... ad altri non accade nessuna delle due cose... di certo tutti ci muoviamo lungo la medesima direzione... ed andiamo in un unico inevitabile luogo... Così è per i pittori, per gli artisti, per gli artisti pittori e per i pittori artisti, per le persone... per tutti.. anche per i critici... anche per i curatori...
Ad oggi non mi interessano i ragionamenti macro-strutturali/ti. Mi muovo in un'ucronia personalissima ed in operazioni laterali di sano confronto con altri artisti.
Non sono un artista “en Vogue” e se Dio vuole, questo non succederà. Sono un artista “en Vague” questo sì. Ondeggiando su un terreno imponderabile, salgo e discendo con relativo distacco, le creste dell'onda che si avvicendano fino a dar il mal di noia.
Solo da pochi anni ho compreso una dichiarazione resami da Bernard Martin: “l'unico artista contemporaneo che mi interessi è Cranac” Io non arrivo a tali estremi, molto mi interessa... soprattutto molto di quanto non interessi a nessuno, questo certo rende esigue le conversazioni “intelligenti”, ma amo molto parlare del tempo e conosco tutte le denominazioni usate per le formazioni di nubi.
*Kaspar Hauser (1812 circa – Ansbach, 17 dicembre 1833) fu chiamato il Fanciullo d'Europa.
Il 26 maggio 1828 compare all'improvviso in una piazza di Norimberga, un ragazzo che ha forse sedici anni e sa dire solo un nome, forse il suo, Kaspar Hauser e poche altre parole- Voglio Essere Cavaliere come mio Padre.
Poteva nutrirsi solo di pane e acqua. Reagiva violentemente a qualsiasi impressione sensoriale, come ai suoni acuti.  Vedeva benissimo di notte, anche gli accostamenti più difficili, come un numero civico rosso su fondo nero dall'altra parte della strada. Per ragioni tuttora ignote, aveva passato gli ultimi dodici anni ial buio, in una “scatola” in legno, imprigionato da un uomo che lo nutriva e lo curava periodicamente, una volta sedatolo, che poi lo lasciò inaspettatamente libero. Il 14 dicembre 1833, nel parco di Ansbach, venne pugnalato da uno sconosciuto e morì tre giorni dopo. Sulla sua lapide si legge: QUI RIPOSA KASPAR HAUSER, ENIGMA DEL SUO TEMPO. IGNOTA L'ORIGINE, MISTERIOSA LA MORTE - 1833. Nei giardini dove fu accoltellato gli fu eretto in seguito un monumento, con una lapide che recita: QUI UN TIPO MISTERIOSO FU UCCISO IN MODO MISTERIOSO


ANTON CORBIJN

  
Intervista ad ANTON CORBIJN
di Marta Casati



La musica, of course. Quella che come leggenda vuole lo ha portato a Londra e poi in pellegrinaggio per il globo a ricamare con le immagini l’identità dei Depeche Mode, degli U2 e dei Rem, solo per citare alcune delle molte icone incantate dai suoi scatti. Saltando dalle pagine di Vogue a quelle di Rolling Stone, Elle o Max e girando oltre 60 clipfra i quali Some YoYo Stuff, documento unico su Captain Beefheart realizzato niente meno che per la BBC nel ’93 – Anton Corbijn tra premi e riconoscimenti si è presentato a Cannes l’anno scorso con Control, film su Ian Curtis dei Joy Division mostrando, ancora una volta, tutta la sua carica. Fotografo, regista, forse confessore, giocoliere che stringe la visione sulla musica e la musica su una visione, quella.



Il tuo progetto fotografico più recente è la mostra alla Biennale di Alessandria. Cosa hai presentato in occasione di questa personale?
Ad Alessandria ho esposto parte della mia collezione di autoritratti intitolata a.somebody. Si tratta di fotografie in cui sono vestito come uno di quei musicisti scomparsi che amo o ho amato a un certo punto della mia vita e le immagini sono state scattate nella cittadina in cui sono nato.

Se qualcuno ti chiedesse di definire la fotografia, il concetto che sostiene il suo processo creativo, quale definizione conieresti?
La mia risposta sarebbe scrivere con la luce.

Inserendo il tuo nome su Wikipedia – l’enciclopedia universale on line – si legge: «Anton Corbijn nasce nel 1955 a Strijen, in Olanda. Affascinato dal mondo musicale, nel 1972, assistendo a un concerto dal vivo scatta le sue prime fotografie». Di chi era questo concerto? E cosa ti ricordi di quel giorno?
Era un pomeriggio e nella piazza della città si teneva un concerto dal vivo di un gruppo del posto, i Solution, i cui pezzi mi piacevano molto. Ero un pò nervoso, perché ero timido e ci eravamo appena trasferiti lì durante le vacanze scolastiche, così non conoscevo praticamente nessuno e fu per questa ragione che presi la macchina fotografica di mio padre per avere una specie di alleato – se così si può dire – una via d’uscita e una scusa per andare sotto il palco. Le mie fotografie sono state poi pubblicate su una rivista nazionale di musica e io mi sono sentito come se avessi fatto qualcosa di grande. Era il 28 agosto 1972.

Vorrei chiederti di rispondere a qualche mia curiosità. Mi daresti tre aggettivi per descrivere l'arte contemporanea ma anche onorando il numero perfetto per eccellenza i tre libri migliori che hai letto, i tre cd che reputi "assoluti" nella storia della musica, i tre migliori film mai stati diretti.
Giovane, su di giri ed eccitante – non necessariamente in quest’ordine e non per forza con un significato negativo. Ho letto troppi pochi libri, quindi posso solo dirti quali film mi piacerebbe rivedere e quali canzoni mi piacerebbe ascoltare oggi. Film: I sette samurai, Pulp Fiction, Toro Scatenato. Canzoni che mi mancherebbero: One world di John Martin, Tonight’s the night di Neil Young e Funeral degli Arcade Fire.

Sono molti i personaggi del mondo della musica e non solo che possono vantare un tuo ritratto  basti pensare a Kurt Cobain, Bono, Elvis Costello, Don van Vliet alias Captain Beefheart, Depeche Mode, Lance Armstrong e David Bowie. Chi tra tutti occupa un ricordo diciamo "speciale" nella tua memoria e perché?
La vecchia massima «every picture tells a story» resta valida, quindi è difficile scegliere una sola persona, ma se proprio devo dirne una, allora è Captain Beefheart, perché sono riuscito a scattargli una foto memorabile, per la sua amicizia e per un bel cortometraggio, Some yo yo stuff.

Credo invece che l'autoritratto sia una sorta di disciplina anarchica in cui tu possa procedere libero senza dover ubbidire a nessun tipo di regola o dettame perché il gioco è a tu per tu con te stesso. È così? Sono svariati gli autoritratti che nel corso degli anni ti sei concesso...
È, allo stesso tempo, divertente e avvincente, quindi trovarne una definizione appropriata non è così facile come puoi pensare. 

Quando un'opera – che sia una fotografia, un film o un libro – si può dire davvero finita, conclusa?
Credo che una volta pubblicata sia definitiva.

Il 2007 ha visto l'uscita del tuo film Control, biografia di Ian Curtis cantante dei Joy Division, presentato al Festival di Cannes.
Qual è stato l'obiettivo principale che hai voluto soddisfare nel realizzarlo?
Ho dedicato due anni della mia vita a questo film, tra la ricerca di fondi per finanziarlo, la produzione, la regia e la promozione, ma sono stati anni importanti. Quello che volevo fare all’epoca era raccontare bene quella storia e capire se potevo davvero fare un film. Comincerò le riprese del mio prossimo film nel 2009 e questo è un altro risultato dell’aver girato Control.

Appuntamenti futuri: la tua mente sta già pensando al prossimo progetto da realizzare? Chi/che cosa e quale città coinvolge?
Al momento sto lavorando con gli U2 e i Depeche Mode in vista dei loro nuovi album e sto completando la preparazione di un altro film per il prossimo anno. Non posso rivelare troppo al proposito, solo che il film non è legato alla musica, ma sarà ispirato a una storia di fantasia. E sarà una pellicola a colori.

Anton Corbijn è nato nel 1955 a Strijen, in Olanda. Vive e lavora tra Strijen e Londra.


(Pubblicata su ESPOARTE di dicembre 2009 - gennaio 2010)